domenica 28 aprile 2024

Quando il Montone cambiò Patrona e festa titolare

 

A Siena tutti sanno che il Montone è la prima fra le Contrade a celebrare la festa titolare, e per la città quella data segna l'inizio della “bella stagione” che culmina nello svolgimento dei due Palii.

Ma è poco noto che non sia sempre stato così; fino al 1909, infatti, la comparsa della Contrada di Valdimontone girava la prima domenica successiva al 15 di Agosto, ricorrenza della prima patrona: Maria Assunta in cielo.

Per capire i motivi del cambiamento, bisogna fare un passo indietro fino alla metà del 1700 quando, in seguito a screzi con la compagnia della SS.Trinità, l'oratorio di Contrada fu spostato nella vicina chiesa di S.Leonardo, al tempo inutilizzata e spoglia (nel 1978, comunque, l'oratorio della SS.Trinità è tornato a essere chiesa ufficiale della Contrada, mentre la sconsacrata chiesa di S.Leonardo è ora appendice dell'apparato museale).

chiesa di San Leonardo


Si presentò dunque la necessità di allestire un altare con l'immagine dell'Assunzione, e si chiese aiuto al nobile Fabio Bichi, canonico del Duomo di Siena nonché facoltoso protettore del Montone.

Il reverendo Bichi acconsentì, ma, per motivi solo a lui noti, diede ordine di far dipingere una tavola raffigurante la Beata Maria Vergine del Buon Consiglio e non l'Assunta.

Fu così che il 10 luglio 1757 detta immagine sacra venne esposta nella chiesa di S. Leonardo: il destino volle che il Montone trionfasse nel palio immediatamente successivo, quello del 16 agosto 1757!

Per ancora un secolo e mezzo, comunque, la Contrada continuò a celebrare la festa patronale a metà Agosto, pur riservando particolari festeggiamenti alla Madonna del Buon Consiglio nella sua ricorrenza di fine Aprile.

Solo nel 1909 fu deciso di celebrare compiutamente l'intero programma della festa titolare in onore della Santa Patrona la domenica immediatamente successiva al 26 di Aprile, e da quel momento il Montone è la Contrada che per prima nell'anno effettua il tradizionale giro di omaggio alle consorelle e alle autorità.


Mauro Massaro




Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 26 Aprile 2020 dedicato alla Contrada di Valdimontone

domenica 21 aprile 2024

Amaranto, un nome che fa rima con rimpianto - di Roberto Filiani

"A cavallo è er mejo de tutti, ma er Palio è n'antra cosa..."

Le eloquenti parole di Beppe Gentili, confermate da tanti altri fantini dell’epoca, sono la perfetta sintesi della carriera di Amaranto Urbani, probabilmente uno dei fantini più sfortunati della storia.

Arrivò a Siena da Cantalupo in Sabina e debuttò appena ventenne montando Wally per la Giraffa nel luglio 1932, lo chiamarono Boccaccia, per la sua bocca “a ranocchia”, ma per tutti restò sempre e semplicemente Amaranto.


foto ilpalio.org


Già dagli esordi Amaranto dimostrò ottime doti, in particolare in partenza.

Nel 1934 si legò, in un curioso connubio cromatico, con la Torre, ma quello fu un anno decisamente sfortunato: a luglio pur lottando nelle prime posizioni il Palio lo stravinse il Meloncino nella Civetta ed in Salicotto arrivò la poco ambita cuffia; ad agosto andò ancora peggio, nel famoso Palio del tradimento di Pietrino al Nicchio, l’Oca vinse, ancora col Meloncino, con Amaranto relegato in fondo al gruppo sull’anziana e malconcia Lina.

Assente nel 1935, l’anno seguente Amaranto riuscì a mettersi in particolare evidenza dando praticamente una svolta positiva alla sua carriera.

Il riferimento obbligato è al Palio dell’Impero, corso il 2 luglio 1936, partito primo, nella Chiocciola sull’esperta Melisenda, fu protagonista di due duelli accaniti prima al Casato dove fece cascare lo Sgonfio nella Pantera e poi con il super favorito Pietrino, nell'Oca con il mitico Folco, annientato a nerbate e controllato fino allo scoppio del mortaretto che vide trionfare la Giraffa col quasi ignaro Bovino aggrappato a Ruello.

Pur sacrificato in un ruolo di difesa Amaranto aveva disputato un gran Palio chiuso con un secondo posto bissato nell'agosto successivo nel Nicchio con Folco quando, dopo una brillante partenza, il nostro protagonista non riuscì a recuperare su Tripolino nel Drago con Aquilino.

Il Palio del luglio 1939, disputato dopo tre anni di assenza, confermò tutte le caratteristiche di Amaranto: nel Nicchio su Ruello, due giri da protagonista prima di perdersi a vantaggio di Pietrino e Tripoli che si contesero la vittoria.

Probabilmente quest’altra sconfitta, con uno dei migliori cavalli del momento, accentuò la sofferenza di Amaranto, vittima da un’oscura e crescente paura di vincere.

Alla ripresa del Palio dopo la guerra Amaranto si legò alla Tartuca, in un modo che merita di essere raccontato.

In un’Italia ancora stravolta dalla guerra la notizia della ripresa del Palio arrivò anche ad Amaranto che, nel frattempo, pur impegnato in altri mestieri, non aveva abbandonato la sua passione.

A luglio i quasi impossibili collegamenti post-bellici avevano impedito ad Amaranto di raggiungere Siena e per il successivo Palio d’agosto si profilava una nuova assenza dal Campo.

Invece a Siena non era stato dimenticato e qualcuno pensava a proprio a lui come mossa a sorpresa per vincere il Palio.

La Tartuca, con la promettente Giuliana, dopo esser riuscita a contattare telefonicamente Amaranto organizzò un viaggio, davvero tribolato ed avventuroso, per riportare il fantino laziale a Siena e tenerlo nascosto fino al momento opportuno che arrivò alla quarta prova.

L’accoppiata con la svelta Giuliana faceva davvero ben sperare la Tartuca ma, nella notte precedente alla carriera, la cavalla accusò dei problemi fisici che preclusero di fatto la vittoria nonostante Amaranto fosse riuscito, ancora una volta a partir primo ed a rimanere in testa per tutto il primo giro.

Appena scoppiato il mortaretto, che sancì il trionfo della Civetta con l’Arzilli su Folco, tutto il popolo delle contrade era già sul tufo a chiedere la disputa di un altro Palio, un Palio davvero straordinario, il celeberrimo Palio della Pace che vedrà, suo malgrado, attore non protagonista proprio il nostro Amaranto.

Come è ben noto quello doveva essere il Palio del Bruco, a tutti i costi, in tutti i modi, con l’accoppiata Arzilli-Mughetto favorita anche e soprattutto da una fittissima rete di accordi e trame che avrebbero riempito anche le tasche, particolarmente sguarnite dopo la guerra, di tutti i fantini.

Amaranto venne confermato sulla scattante Elis e da subito si comprese che, nonostante le varie pressioni, la Tartuca avrebbe tirato a vincere non allineandosi al volere generale.

Amaranto, quindi, andava fermato in modo diverso e ci pensò il Mossiere Lorenzo Pini ad assolvere al ruolo: per ben due volte la Tartuca scappò nettamente prima col Bruco fermo al canape, in entrambe le occasioni il Mossiere annullò la mossa scatenando l'ira dei tartuchini che, capeggiati da un giovanissimo Silvio Gigli, ritirarono dalla carriera il proprio cavallo, fatto senza precedenti nella storia del "Palio moderno".

Inutili furono le resistenze di Amaranto che venne letteralmente trascinato via dalla piazza, eroe, suo malgrado, di quella che venne definita dal capitano tartuchino Torquato Rogani “una vittoria invisibile e senza teca”.

Imbrigliato da episodi di portata storica eccezionale Amaranto aggiungeva un nuovo rimpianto alla sua lunga lista nera, nulla di paragonabile a quello che sarebbe accaduto nel Palio successivo.

La tratta favorì l'Oca che decise di affidare il grande Folco ad Amaranto che dalla mossa, nonostante la vicinanza della Torre, uscì con un vantaggio notevole, con il Montone, maggiore antagonista, completamente fermo tra i canapi, all'improvviso, però, con un ritardo clamoroso e tra lo stupore generale, la corsa dell'Oca venne fermata dal ripetuto scoppio del mortaretto.

Ancora il Mossiere Pini ed il mortalettaio Ragno, appassionato montanaiolo, avevano fermato la volata di Amaranto verso la tanto desiderata gloria.

Rientrato nell'Entrone affranto ed incredulo Amaranto si trovò solo di fronte al suo dramma e tornò tra i canapi molto provato, riuscì comunque di nuovo a partire primo ma già a San Martino si concretizzò la rimonta di Ganascia che col nerbo difese per tre giri la sua posizione infliggendo al fantino dell'Oca un'umiliazione fin troppo pesante.

Per il Palio successivo Amaranto venne confermato dall'Oca su Salomè, anche se la fiducia nei suoi confronti iniziava a vacillare tanto che nelle prove si alternarono con lui anche i vecchi Pirulino e Porcino.

Con grande determinazione Amaranto a San Martino riuscì a prendere la testa ma la mantenne per un solo giro, battuto stavolta dall’emergente Beppe Gentili.

A chiudere e confermare lo sfortunatissimo connubio con l'Oca lo straordinario del 18 maggio 1947 terminato con la rovinosa e drammatica caduta al primo San Martino che costò la vita al velocissimo purosangue Cesarino che aveva appena preso la testa dopo una partenza a razzo dalla posizione di rincorsa.

Il secondo posto nel luglio 1947, nella Tartuca sul poco considerato Gioioso, reso pimpante dal vecchio Bubbolo tutto fare della stalla, è solo l’ennesimo amaro dato statistico.

Nell’agosto successivo Amaranto fu confermato nella Tartuca sulla quotata Salomè ma sul fantino ormai iniziarono a serpeggiare ulteriori dubbi e la fiducia nei suoi confronti veniva meno, tanto che la monta fu in bilico fino all’ultimo.

Il Palio lo vinse la Torre, Amaranto pur partendo tra gli ultimi arrivò terzo ma subì lo stesso una dura contestazione a fine corsa che lo amareggiò a tal punto da fargli promettere di non tornare più a correre nella Tartuca.


Ormai consumato da tante delusioni ed ossessionato dal miraggio della vittoria Amaranto corse due Palii anonimi nel 1948 per poi rilanciarsi, a sorpresa, nel luglio 1949 disputando una grande carriera nel Bruco con lo sconosciuto Mistero battuto solo dalla giornata di grazia del giovane Bazza nella Chiocciola.

La tratta del Palio d'agosto assegnò Mistero alla Torre che, dopo quindici anni e dopo la militanza in Fontebranda, scelse proprio Amaranto preparando il Palio in tutti i dettagli.

Forse per la prima volta, nella sua ormai lunga carriera, Amaranto si presentò tra i canapi con tanti soldi da spendere ed il conseguente appoggio di gran parte degli altri fantini.

Il lavoro della dirigenza torraiola sembrò poter sortire gli effetti sperati: Amaranto, risalito indisturbato dal quinto posto fino allo steccato, riuscì a partire nettamente primo mentre la Civetta, principale antagonista con l'Arzilli sulla velocissima Popa, subiva prima l’ostacolo tra i canapi del Terribile nella Selva e poi veniva frenata dalle nerbate di Pietrino nell’Istrice.

Ma anche stavolta qualcosa andò di traverso: l'Arzilli, con il quale Amaranto aveva avuto qualche dissidio di natura economica, riuscì a divincolarsi al secondo Casato dal duro ostacolo ed in poche falcate raggiunse e staccò nettamente la Torre.

Una possibile vittoria storica si trasformò in un pianto disperato...

La malasorte non risparmiò altri duri colpi per Amaranto anche nei suoi ultimi incolori spiccioli di carriera, i clamorosi fatti dell’agosto 1952 sono emblematici in tal senso.

Il veloce Miramare faceva ben sperare Amaranto ed il Bruco, afflitto da un digiuno trentennale, la posizione allo steccato ed i tanti soldi a disposizione rendevano la situazione ancora più favorevole.

Ma, all’improvviso, con la rincorsa ancora fuori dai canapi, una banale forzatura mandò sul tufo il povero Amaranto, riportato a braccia nell’Entrone e poi sostituito, in barba al regolamento, da Falchetto “prelevato” dalla Chiocciola per evitare l’invasione di pista dei brucaioli.

Ormai vittima di critiche, spesso ingenerose e fin troppo pungenti, Amaranto corse il suo ultimo Palio nell’agosto 1953 per la Civetta, lasciando in molti contradaioli un ricordo di struggente rammarico.

Morì a soli quarantaquattro anni sognando di vincere un Palio, il suo più grande rimpianto di fantino “onesto”.


Roberto Filiani

 

giovedì 21 marzo 2024

L’Oratorio di San Giovannino della Staffa


Formata dai rioni delle Compagnie militari di San Giorgio e di Pantaneto, a cui si aggiunse più tardi anche una porzione della Compagnia di Spadaforte, la Contrada del Leocorno, dopo aver a lungo tenuto le proprie adunanze nelle abitazioni dei capitani, e specialmente nel palazzo dei nobili Sozzini, riuscì alla fine del XVII secolo ad ottenere ospitalità nella cappella interna della Chiesa di San Giovanni Battista in Pantaneto, officiata dall’omonima compagnia laicale. La convivenza con i confratelli della compagnia si rivelò ben presto difficile e la contrada dal 1720 si adattò a tenere le adunanze presso l’Osteria dell’Angelo, situata nella piazzetta di Follonica.
Rinnovato l’accordo per l’uso della cappella in San Giovanni Battista nel 1776, il Leocorno vi rimase fino al 1869, anno in cui riuscì ad ottenere la chiesa di San Giorgio, rimasta libera per il trasferimento del seminario arcivescovile. Finalmente, attraverso una convenzione stipulata nel 1966 con la curia senese, il Leocorno ebbe ad uso perpetuo la chiesa di San Giovanni Battista detto della Staffa, nome derivato dall’antica denominazione dell’attuale via Sallustio Bandini.
Nell’Oratorio sono conservate numerose ed importanti opere d’arte, alcune realizzate da artisti che furono anche fratelli della compagnia di San Giovanni in Pantaneto, come Domenico Manetti e Bernardino Mei, che nel 1648 fu anche priore della compagnia.



La chiesa ha una semplice ma elegante facciata in cotto realizzata da Giovan Battista Pelori nel 1537.
Nella cappelletta d’ingresso troviamo una fila attribuita a Deifebo Burbarini che rappresenta il “transito di San Giuseppe“.
All’interno gli affreschi delle volte sono stati eseguiti da Dionisio Montorselli, Astolfo Petruzzi pittore italiano del periodo barocco, attivo principalmente a Siena ma anche a Spoleto e Roma, allievo di Francesco Vanni, lavorò con Ventura Salimbeni e Pietro Sorri.
Alle pareti, sopra un grande coro ligneo, realizzato ad opera di diversi maestri falegnami tra il 1579 e il 1605, sono collocate 13 tele con le storie di San Giovanni Battista, raffiguranti, partendo da sinistra: “Visione di Zaccaria“ di Raffaello Vanni;  “Visitazione“ di Giovan Battista Giustammiani, detto il Francesino, pittore attivo a Siena, forse è di origine francese; “Natività del Battista“ di Domenico Manetti; “Gesù bambino e San Giovannino“ di Rutilio Manetti; “San Giovanni nel deserto“ di Astolfo Petrazzi(1639); “Predica del Battista“ di Rutilio Manetti; “Angelo annunziante“ di Dionisio Montorselli.
Guardando l’altare maggiore, probabilmente realizzato da Flaminio del Turco nel 1609, troviamo il “Battesimo di Gesù” sempre di Rutilio Manetti; “Annunziata” di Dionisio Montorselli; “il Battista addita il Redentore ai farisei“ opera dei fratelli Rutilio e Domenico Manetti; “San Giovanni dinnanzi a Erode“ di Bernardino Mei suo anche la “decollazione del Battista“; “Danza di Salomè” di Deifebo Burbarini;
“San Giovanni portato al sepolcro“ del Francesino.
Infine, collocata su un cavalletto, una tavola del XIV secolo raffigurante la Madonna della Pace di Francesco di Vannuccio, pittore italiano documentato tra il 1356 e il 1389,particolarmente venerata durante la seconda guerra mondiale.
Nei locali adiacenti alla chiesa sono conservate altre preziose opere d’arte, soprattutto nell’ex cappella della Madonna della Pace ora sala delle adunanze, come due tele di Aurelio Martelli “La nascita e il transito della Madonna“ (1667).
Ai piani superiori si trovano alcuni dipinti provenienti dall’Oratorio della Congregazione degli Artisti, che ebbe origine alla metà del XVII secolo sotto l’Immacolata Concezione, che nel 1914 deliberò di entrare a far parte della Contrada del Leocorno conferendole tutti i suoi oggetti d’arte ed anche il suo Archivio.
 
Caterina Manganelli




Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 20 Giugno 2020 dedicato alla Contrada del Leocorno

Crediti foto:
Facciata di San Giovannino - Autorizzazione CC BY 3.0 (autore Sailko)
Tabernacolo di Pier Luigi Olla - Foto di Matteo Ricci
 

sabato 2 marzo 2024

L'inganno del tempo: gallo nero e gallo bianco.


Quante volte nella nostra vita al suono della sveglia ci siamo girati dall' altra parte
bofonchiando “Ancora 5 minuti!”.
Io personalmente tutte le mattine. Confido di aver messo una sveglia ausiliaria e torno a sognare placidamente. I problemi cominciano quando mi accorgo che il mio sonno supplementare non è stato di 5 ma di 35 minuti.
Il resto sembra un copione già scritto: sequele di improperi e accidenti vari con l’inevitabile conclusione di essere in ritardo. Il tempo già non é galantuomo ma la mattina poi è un autentico tiranno. Non solo per i ritardatari cronici come me. Tutti siamo affamati di tempo; un bene che non ci basta mai. Per averne a disposizione sempre di più ci inventiamo stratagemmi sempre più articolati per contrastare il suo inesorabile scorrere.
Giusto ieri mentre sfrecciavo fra le colline del Chianti -ovviamente in ritardo con l’obiettivo a ingannare il mio tempo personale dalle maghe dei nostri giorni: le estetiste -mi sono ricordata di un racconto, una leggenda sotto alcuni aspetti, in cui l’ ingegno dell' uomo un po' di tempo e' riuscito a guadagnarlo davvero.

immagine tratta dal sito https://www.chianticlassico.com/

La storia è ambientata proprio in queste terre, in quel periodo mistico e complicato che è il Medioevo. La regione che già da allora si chiamava Chianti è sconquassata da due nemici di sempre: Siena e Firenze.
Non era solo una disputa di principio badate bene, come un' antipatia “a pelle”. La posta in gioco allora era molto più concreta. La posizione strategica tra il Valdarno il Fiorentino il Chianti nel centro esatto di un palcoscenico naturale di guerre.
In tutto questo dovete considerare le mire espansionistiche di Siena. Per spezzare una lancia a loro favore occorre osservare che la loro politica “estera” non dava i frutti sperati. A nord non riuscivano a fare breccia con i fiorentini e persino a sud le realtà comunali di Montepulciano e Montalcino giurano fedeltà al giglio. I tentativi di assedio poi non vanno a favore della controparte balzana.
Ma tornando al nostro racconto, le cronache dimostrano che né a parole né ad armi si riesce ad avere un risultato definitivo che garantisca una tregua un po 'più duratura.
La storia narra che in seguito all’accordo di Fonterutoli del 1208 entrambi gli schieramenti concedano di disputare una gara. I partecipanti sono un cavaliere senese e un cavaliere fiorentino. Lo svolgimento e' il seguente: i due sfidanti dovranno partire dai loro rispettivi accampamenti (posti alle porte delle rispettive città) al cantare del gallo e correre a spron battuto fino a che non si incontreranno. In quel punto, dove giglio fiorentino e balzana senese si incontreranno, lì sarà posto il confine e non se ne parlerà più.
Vengono scelti i galli: a Siena un gallo bianco e a Firenze un gallo nero.


Ed è qui che entra in scena l'ingegno umano (e forse il racconto diventa leggenda). Il canto del gallo infatti era un modo all’epoca per scandire il tempo. E' noto tutt' oggi che il gallo canta con il sorgere del sole. Il lampo di genio è stato far credere al gallo che il sole (per lui) doveva sorgere prima. Per farlo si è reso necessario fare leva su un bisogno ancora più ancestrale del cantare: la fame.
I senesi dettero al loro gallo dal manto candido mangiare a sazietà in modo che al sorgere del sole cantasse con un fragore tale da svegliare tutto l’ accampamento. I fiorentini, al contrario, al loro gallo non dettero da mangiare. Il povero pennuto quindi vinto dai morsi della fame se ne infischia del colore del cielo e in anticipo rispetto al sorgere del sole comincia a cantare.
Poco importa se tutt' intorno fosse ancora coperto dal velo della notte. Il segnale convenuto aveva squarciato l’aria forte e chiaro. Il cavaliere con lo stemma del giglio si infila l’elmo sale sul suo destriero e galoppa per ben 12 legge prima di incontrare il suo collega accompagnato dallo stemma della balzana. Per dare un riferimento si incontrano pressappoco nella zona di Castellina in Chianti.
Non oso immaginare la rabbia e lo smacco dei “sanesi” di trovarsi i confini guelfi a un tiro di schioppo dalle proprie mura. Conoscete il detto “Chi perde non cogliona ma ha diritto a sclerare”?
Manco a dire che la parte lesa ghibellina potesse presentare ricorsi o altro perché nell' accampamento guelfo c'erano i <<notari senesi>> presenti nel momento in cui quel galletto ha cominciato a cantare.
Mi diverto ad immaginare nobili e plebei, prelati e laici dietro le possenti mura che tutt'oggi possiamo ammirare, tutti insieme a mangiarsi le mani tirando improperi ed anatemi con gli occhi alzati al cielo per essere partiti in ritardo.
Non vi sembra di aver appena vissuto un deja-vù !?

Eleonora Sozzi


Bibliografia:
“La storia del Chianti”, Giovanni Righi Parenti- Edizioni Periccioli- Siena

si consiglia la visione del filmato realizzato dal Consorzio del Chianti Classico

domenica 11 febbraio 2024

Da Marescotti a Chigi: Storia di un palazzo e di chi lo ha vissuto



“Ond’io a lui: Lo strazio e il grande scempio,

Che fece l’Arbia colorata in rosso,”

Inferno Canto X Ver. 85/86


Così il Sommo Poeta racconta la battaglia di Montaperti.

Dall’avvenimento narrato erano passati 61 anni, ma l’eco di quell’epica battaglia risuonava ancora forte nelle orecchie. Dante era venuto a conoscenza dei fatti dai racconti di chi c’era, quasi come oggi ascoltiamo le storie dei vecchi Palii nelle serate estive. Così come oggi ognuno racconta la sua versione del Palio, all’epoca accadeva uguale anche riguardo una guerra, creando versioni fantasiose e talvolta leggendarie. Rispetto la battaglia di Montaperti di storie non del tutto veritiere ne sorsero tantissime. Infatti vive ancora la leggenda di Cerreto Ceccolini, il tamburino che avrebbe fatto la radiocronaca dello scontro, appollaiato sulla torre Marescotti.
Come ho detto questa è una leggenda, non abbiamo la sicurezza che Ceccolini possa aver fatto questa cronaca, anche a causa della grande distanza; tuttavia la torre esiste ancora.
Torre Marescotti appartiene alla cellula embrionale di quello, che nel 1877, diverrà Palazzo Chigi Saracini.


Marescotti


Ritratto di Mario Scoto


Come tutte le famiglie potenti, anche i Marescotti si danno un’origine importante facendo risalire la loro casata a Marius Scotus, fantomatico militare scozzese dell’VIII secolo. La leggenda racconta che quando nel 773 d.C. Carlo Magno scese in Italia contro i Longobardi, rei di non aver rispettato il limite del territorio papale.  Mario Scoto, che era stato incaricato da suo fratello Guglielmo Conte di Douglas, di comandare il suo esercito al fianco di Carlo Magno, trovò un passaggio tra le montagne e attaccò di sorpresa i Longobardi.  Lasciate le armi alla fine del secolo, si sposò con una nobildonna italiana  e ricevette l’incarico di fare da scorta al Papa. Nell’800 ricevette l’investitura del contado di Bagnacavallo in Romagna.  La famiglia Marescotti conserva tutt’oggi un ritratto d'uomo d'arme che porta la seguente iscrizione in latino “Marius de Calveis, Scotus, Carl Mag M Dux Familiam Marescotti Fundavit ANN D. DCCC.”
Di fatto la prima menzione attendibile di un appartenente alla dinastia è un Mariscotto, console del comune di Bologna e poi capitano generale  nel 1179 e un Raniero Marescotti, nominato Cardinale da Papa Lucio II nel 1144.
Il ramo Senese si sarebbe formato con Guglielmo Marescotti, podestà di Siena nel 1232. Tuttavia la loro presenza nel senese, è documentata già nel XII secolo, come feudatari della maremma.


Il primo palazzo

Scendendo Via di Galgaria (antico nome di Via di Città, dovuto alla presenza dei “Galgari”, cioè cuoiai e calzolai) si apre sulla destra il vicolo di Tone. Questo passaggio, che secondo Lusini si riconnetterebbe all’antica strada romana di Tascheto  (oggi Via dei Percennesi), prende il nome da Guido Marescotto dei Marescotti. Guido o Guittone (da qui il toponimo) sarebbe colui che iniziò la costruzione del Palazzo, partendo proprio dalla torre di cui parlavamo precedentemente.
Siamo alla metà del 1200 circa e la posizione prima e la leggenda poi, pongono l’accento sull’influenza che aveva questa famiglia nel panorama politico senese.

 

Passaggio di consegne

Nel corso dei tre secoli durante i quali il palazzo rimase di proprietà dei Marescotti, vennero effettuati molti ampliamenti assorbendo le costruzioni adiacenti.
La famiglia rimase in possesso dell’edificio fino al XVI secolo, quando venne acquistato dai Piccolomini del Mandolo: altra importantissima casata senese a cui dobbiamo l’attuale aspetto rinascimentale, tramite le decorazioni raffaellesche del loggiato esterno ed il fregio istoriato rappresentante le storie di Pio II.


Piccolomini

Stemma della famiglia Piccolomini

Questa famiglia è senza dubbio una delle più importanti della storia della Città. Anche i Piccolomini, come già abbiamo detto per i Marescotti, fanno risalire l’inizio della stirpe a tempi molto remoti.

Francesco Maria Piccolomini vescovo di Pienza nel 1597, in risposta a Ottaviano Crociani, raccontò che il segretario di Papa Pio II, Leonardo Dati, avrebbe trascritto il diario di Caio Vibenna dove sono raccontati i fatti del re Porsenna riguardo un Bacco Piccolomini, signore di Castelmontone, che sarebbe andato in soccorso di quel re contro i romani, inalberando lo stendardo che è ancora oggi blasone della famiglia.
Il bisogno di far risalire le origini a fatti o persone di primo piano storico era necessario, quanto lo sono oggi le referenze per trovare lavoro. Esse servivano appunto da garanzia e vanto, nei confronti delle altre famiglie nobili della zona, per cui talvolta è facile imbattersi in storie più che fantasiose.


Piccolomini del Mandolo

Questo ramo della casata Piccolomini  ha origine nel corso del XIII secolo, con Biagio di Carlo figlio di Carlo di Gabriello di Rustichino. I componenti furono molto presenti nelle cronache senesi per il loro altissimo livello culturale e sociale che permise l’acquisto del palazzo Marescotti e l’adeguamento in chiave rinascimentale di cui abbiamo parlato. La Famiglia Piccolomini del Mandolo, dopo aver annoverato svariati Vescovi e Arcivescovi, anche molto influenti presso il papato,  si estinse nel corso del XVII secolo, quando i figli maschi di Guglielmo e Giuditta Amerighi morirono senza dare discendenza.


Tracce dei Mandoli

ASSi, Tavoletta di Biccherna n. 82, Anonimo “Un torneo in piazza del Campo”, 1607 - Immagine autorizzata dall’Archivio di Stato di Siena

I Piccolomini dal Mandolo sono, come si intuisce, l’unione matrimoniale tra i rampolli delle due casate. Purtroppo, mentre dei Piccolomini abbiamo moltissime documentazioni anche relativamente antiche, dei Mandoli disponiamo di pochissime attestazioni, tra le quali gli  stemmi raffigurati su alcune tavolette di Biccherna, come ad esempio la numero 82 (1607-1610) e la numero 60 (1555). Ad oggi, una parte importante della famiglia Mandoli risiede a Lucca, da dove sembra sia nata la dinastia, ed è grazie ad una loro discendente, Rita Camilla Mandoli Dallan e alla sua straordinaria ricerca,  che mi è stato possibile ricostruire questa parte della storia del Palazzo Chigi (ancora Piccolomini del Mandolo).


Dai Saracini alla Chigiana

Dopo gli ammodernamenti rinascimentali apportati dalla famiglia Piccolomini del Mandolo, l’immobile passa nelle mani della famiglia Saracini – Lucherini (Lucarini).
L’unione delle due famiglie, Saracini e Lucherini, si ha nel 1668 quando Galgano Saracini venne adottato dalla famiglia Lucarini, unendo i due stemmi (effige di un moro sovrastato da un’aquila) e assumendone il cognome.
A partire dal 1770 avviene un’ulteriore  ampliamento della facciata, aggiungendo una fila di trifore fino a giungere al Vicolo di Tone; un ricongiungimento, se si vuole,  con la famiglia che aveva dato il via al Palazzo. 
Nel 1877, per volere testamentario di Alessandro Saracini Lucherini, l’edificio viene ceduto all’unico erede, il nipote Fabio Chigi che assunse il nome di Fabio Chigi Saracini (di fatto non vi è menzione del nome Lucherini, che sembra sparire in questo passaggio, dalla storia della casata), che a sua volta lo donò al nipote Guido Chigi Saracini. L’appartamento al primo piano venne adattato nel 1922, da Arturo Viligiardi (1869-1936) inserendovi anche un salone da concerti in stile settecentesco. La famiglia Chigi Saracini vi abiterà fino al 1965, riservando parte del palazzo all’Accademia Musicale Chigiana, istituita dal Conte Guido Chigi Saracini nel 1932, divenuta Fondazione Chigiana nel 1958.


Interno del Teatro – Si ringrazia per la foto la “Fondazione Accademia Musicale Chigiana”


Il nostro percorso attorno alla storia del Palazzo Chigi Saracini Lucherini, ci ha portato a scoprire persone e istantanee di storia senese, che corrono il rischio di andare perdute.

Tramite questo viaggio, abbiamo riconsegnato l’onore alla famiglia Marescotti e al ramo Piccolomini del Mandolo. Queste famiglie sono tutt’oggi parte fondamentale della nostra storia e meritano un posto d’onore accanto alle casate più “fortunate” del panorama storico senese.

 

Michele Vannucchi

 

Fonti usate

Sito dell’Accademia Chigiana; sito della SIAS – Sistema Informativo degli Archivi di Stato; sito della famiglia Mandoli; sito dell’archivio di Firenze; Sito Araldica Vaticana, archivio Marescotti-Ruspoli.

Tra gli storici da cui ho preso spunto cito Maura Martellucci e Roberto Cresti.

Bibliografia

Spicilegium theologicum seu difficiliores controuersiæ selectæ ..., Volume 3.
Toscana. Guida d'Italia (Guida rossa), Touring Club Italiano, Milano 2003
Archivio storico italiano di G.P. Vieusseux Tomo XXI anno 1875
Roberta Mucciarelli - L'archivio Piccolomini: Alle origini di una famiglia magnatizia: discendenza fantastiche e architetture nobilitanti, (edito in “Bullettino Senese di Storia Patria”, CIV, 1997, pp. 357–376)
Fascicolo 6436 Archivio di Stato di Firenze



ARTICOLO TRATTO DALLA RUBRICA: "STORIE DAI TERZI: TERZO DI CITTà" DEL NOTIZIARIO DEL FORUMME DEL 27 MARZO 2021

 

mercoledì 24 gennaio 2024

Maria Pia, il senso dell'appartenenza


Quando tentiamo di spiegare a qualche conoscente non senese cosa significhi realmente l’appartenenza contradaiola troviamo difficoltà nell’esprimere un concetto che per noi è così fortemente radicato e significativo, parte integrante del nostro modo di essere e di agire, ma che per chi non ha avuto la fortuna di nascere a Siena (o averci comunque un forte legame) è un qualcosa di completamente estraneo ed astratto.

E’ come tentare di spiegare l’amore a chi l’amore non l’ha mai provato: possiamo parlare di farfalle nello stomaco, di sensazioni e figure poetiche, ma il senso profondo l’altra persona non potrà mai assorbirlo fino in fondo fino a quando l’amore non lo proverà sulla sua pelle.

Maria Pia nella sua vita ha sintetizzato col suo modo di essere il significato dell’appartenenza contradaiola, o meglio di come questa con la sua portata riesca a entrarti nelle vene pur non vivendola direttamente e quotidianamente, pur vivendo la propria vita a 200km di distanza e pur non avendo mai frequentato in maniera attiva la Contrada.

Maria Pia non ha mai vissuto a Siena, è nata nel 1956 e all’epoca i suoi genitori, senesi DOC, lei del Nicchio e lui della Tartuca ed entrambi classe 1924, si erano già trasferiti per questioni lavorative in Versilia. I genitori nonostante questo hanno deciso di partorirla a Siena donandole il privilegio di poter avere l’I726 sul codice fiscale e trasmettendole fin dalla nascita tutto l’amore e la passione per la città e per i colori della Tartuca, la Contrada paterna dove la famiglia aveva la casa in Via Castelvecchio.

Maria Pia è cresciuta vivendo a distanza e nutrendosi di questo amore incondizionato, in 67 anni di vita non ha mai mancato una Carriera o una festa Titolare, non ha mai mancato una cena della Prova Generale, non è mai mancata a nessuno dei festeggiamenti per le 9 vittorie che ha avuto il privilegio di vivere. Quando ha potuto ha frequentato la Contrada, partecipando ai cenini e relazionandosi con chi in Contrada ha avuto l’occasione di conoscerla e stringere con lei un legame: sempre con discrezione e modestia, senza mai voler passare avanti a nessuno, consapevole sempre di quello che era il suo posto e senza manie di protagonismo.

Lontano da Siena ha coltivato questo suo senso di appartenenza trasmettendolo agli amici di una vita e ai propri figli, educandoli alla Contrada e ai suoi valori fin dalla loro nascita. A scuola, dove insegnava, tutti ormai conoscevano questa sua caratteristica al punto che gli studenti, quando volevano evitare una interrogazione, provavano a chiederle di raccontare qualcosa su Siena e sul Palio sapendo che lei a quel punto si sarebbe persa nell’ardore di quella sua passione: lei conosceva il trucco ma a volte ugualmente fingeva di caderci perché il desiderio di poter raccontarsi in quella veste superava qualsiasi altra cosa.

Il suo amore era viscerale, parte integrante del suo essere, inutile dire che casa sua era un santuario di tartarughe e riferimenti a Siena, che il suo abbigliamento era sempre in tonalità d’oro e d’azzurro e che i suoi occhi splendevano quando poteva raccontare cos’era Siena e il Palio.

Un modo di essere e di vivere il suo essere contradaiola che i senesi conoscono e capiscono bene e che accumuna tutti quanti, ma che di certo non è così scontato in una donna che quel senso di Contrada e di comunione ha potuto viverlo ed esprimerlo relativamente poco a causa della distanza a cui era costretta; una vita vissuta lontano ma sempre con quei due colori ad accompagnarla, una vita che fa riflettere su quanto sia forte e profondo il senso di appartenenza che solo a Siena una Contrada riesce a trasmettere ai suoi figli, vicini e lontani.

Maria Pia se n’è andata il 24 Novembre dopo un anno difficile, sofferto: dal 21 Agosto non è più tornata a casa passando gli ultimi 3 mesi in ospedale ma nonostante tutte le difficoltà che stava affrontando i giorni del Palio li ha voluti passare a Siena e il 15 sera come sempre era a cena in Sant’Agostino, il suo luogo del cuore, l’unico dove si sentiva a casa.

Il suo desiderio era di essere riportata a Siena, e così è stato, è stata portata al Laterino e ad accompagnarla nel suo ultimo viaggio c’erano Don Floriano, una bandiera della Tartuca e l’inno della Contrada. Con sè, nel suo ultimo letto, ha portato il fazzoletto della Tartuca, lo stesso fazzoletto che ha stretto a sè in questi ultimi mesi di ospedale, la madonnina del Voto e due braccialetti, uno con perle gialle e turchine, e l’altro con sopra una tartaruga. Una tartaruga impressa anche sulla pelle oltre che nel cuore nell’unico tatuaggio che avesse mai desiderato farsi.

Ciao Maria Pia, ciao madre, grazie per essere stata la persona meravigliosa che eri e grazie per averci trasmesso anche questo senso profondo di appartenenza, senso di cui a tuo modo sei stata simbolo per tutta la vita.


Simone e Elena Pasquini

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre2023 di Murella Cronache

sabato 6 gennaio 2024

White Christmas

Poco prima del Natale del 1942 fu messo in vendita White Christmas, un disco destinato a diventare il singolo più venduto di tutti i tempi, o perlomeno rimarrà tale fino al 1997, quando verrà spiazzato da Candle in the Wind. Un anno prima, il 7 dicembre del 1941, il Giappone aveva attaccato le installazioni militari statunitensi di Pearl Harbor e gli Stati Uniti erano entrati in guerra; pertanto, il Natale del 1942 sarebbe stato il secondo con milioni di ragazzi americani all’estero per la prima volta nella loro vita, lontani dalle loro case e dalle loro famiglie. I soldati americani al fronte sentirono subito White Christmas come il canto che sapeva esprimere i loro buoni sentimenti, la nostalgia per le loro vite interrotte e per i loro riti sospesi. L’autore della canzone, Irving Berlin, ebreo russo emigrato negli States a fine Ottocento, seppe comporre un inno al Natale senza riferimenti cristiani, ma incredibilmente evocativo di tutti i sentimenti che si accompagnano a questa Festa. La canzone faceva parte della colonna sonora del film Holiday Inn con Fred Astaire e Bing Crosby, che seppe interpretare magicamente con la sua morbida voce questa canzone natalizia rendendola un successo senza precedenti. White Christmas seppe consolare gli americani in quel Natale del ’42, ma soprattutto seppe esprimere la retorica statunitense trasfigurando il Natale nell’immaginario di tutti i popoli che dopo la guerra sono entrati in contatto con la cultura statunitense. Dopo White Christmas il Natale di Hollywood diventerà il Natale globale – occidentale. Questo fenomeno di globalizzazione culturale è stato portato avanti da cinema, musica e pubblicità dei prodotti americani. La Coca Cola ha contribuito alla creazione del “Natale Americano” vestendolo con i suoi colori bianco e rosso e riproponendo negli spot più riusciti le note di White Christmas.


In Italia questa visione del Natale arrivò dopo la guerra. Da noi la percezione della Festa era legata alla ritualità cristiana, soprattutto francescana. Fu, infatti, San Francesco ad “inventare” il Natale come lo abbiamo vissuto e percepito, finché il consumismo non ci ha sedotto definitivamente. La canzone di Natale più amata dagli italiani è sempre stata “Tu scendi dalle stelle”, composta da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. La Festa era prevalentemente cristiana, completamente scevra dalla nevrosi consumistica, i regali non esistevano, finite le feste la befana riempiva la calza ai più piccoli ed era facile trovarci noci, mandarini e carta di giornale appallottolata insieme alle caramelle.

Nel secondo dopoguerra hanno coabitato nelle nostre case il Natale cristiano e quello sincretista-consumista, il primo rappresentato dal presepe, il secondo dall’albero, il primo con canti religiosi, il secondo con canti laici. Entrambi belli fino allo struggimento sentimentale.

Alla Messa ci si andava perché ci si credeva davvero, quella della Notte di Natale era una celebrazione diversa da quella delle domeniche ordinarie, perché alla Messa ci si andava tutte le domeniche che Dio metteva in terra. Poi, con il tempo, con il disincanto, con la perdita del senso religioso, con il ’68 e la contestazione, dopo il Concilio Vaticano secondo, moltissimi hanno continuato a frequentare la Messa soltanto la notte di Natale per tradizione (qualcuno si è avventurato anche a quella di Pasqua), senza sapere che la Messa (anche quella di Natale) è la commemorazione della Pasqua. Infine, negli ultimi anni, alla Messa ci andavano soltanto i pochi che ancora la frequentano durante tutto l’anno. Quest’anno, invece, è presa la fregola a tanti di volerci ritornare per forza. Mica per l’Eucarestia, per carità, per quella sono necessari alcuni presupposti che mancano totalmente in persone che vorrebbero vivere un Sacramento per sottolineare un’ideologia pseudo politica.

Per concludere questa mia inutile polemica natalizia, che ben si inserisce nelle migliori tradizioni del pranzo di Natale, quando c’è sempre un parente che, dopo aver ecceduto con il vino, si abbandona a sterili polemiche sui più svariati argomenti, me la voglio prendere con lo shopping compulsivo natalizio. Ben venga il flusso di denaro, o di moneta elettronica, ben vengano gli acquisti esagerati, io per primo adoro il superfluo e voglio che l’economia possa riprendere. Sono il primo che adora il denaro e tutto quello che con il denaro mi illudo di poter comprare. Ma il rito dello shopping deve essere accompagnato da un sottofondo di musica da intrattenimento, note e parole che facciano parte del music-business internazionale, come White Christmas ci ha insegnato. Se dagli altoparlanti vengono diffusi gli orgasmi di un film porno, come è successo nei giorni passati a Vieste, o peggio ancora dovessero essere diffusi inni sacri, voi mi capite, non si rende il giusto servizio al demone consumista, gli inni sacri non fanno assolutamente parte della ricetta del frullato natalizio. Allo stesso modo si addobbino le strade e le vetrine con i colori istituzionali della festa commerciale, senza andare a cercare simboli che non appartengono al Natale. Le cose sacre si lascino alle occasioni adeguate. E chi non lo capisce è lo stesso, che prima di Pasqua, confonde una parte anatomica con il rito religioso delle quarant’ore.

di Jacopo Bartolini

ARTICOLO TRATTO DAL NOTIZIARIO DEL FORUMME DEL 25 DICEMBRE 2020


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  Una Porsche rossa che saliva le curve di San Marco, per arrivare in modo impaziente nel suo Pian dei Mantellini, dove ad attenderlo c’eran...