domenica 26 maggio 2024

I Numeri Unici del Drago - di Massimo Biliorsi



Il primo Numero Unico della Contrada del Drago è quello del Palio della Pace. Non poteva essere altrimenti: la Contrada negli anni trenta è una ristretta, seppur ben organizzata, cerchia di persone con personaggi come Mattei e Nozzoli, capaci di tenere assieme sede e società ma con problemi numerici che si riflettono in settori allora molto laterali come l’editoria. La rinascita del dopoguerra è una rinascita sostanziale, ed ecco un Numero Unico agile e semplice, con quella copertina un po’ liberty, con un drago che fa marameo e collaborazioni illustri come quella di Mario Verdone. Lo sappiamo che l’evoluzione di questa pubblicazione fu ovunque lenta e meditata fino alla fine degli anni sessanta del novecento.
Il Drago si toglie la cuffia nell’agosto del 1962 e una nuova generazione, giovane e un po’ irriverente, guida la Contrada di via del Paradiso. E questo non poteva non riflettersi sulle copertine dei quattro Numeri Unici, quasi una pubblicazione annuale, che testimoniano i successi del 1962, 1963, 1964 e 1966. Sono, nell’ordine, “Grancarriera”, “Piazza pulita”, “Il filo di Arianna” e “Dragomania”. Si assomigliano per grafica, formato e contenuti. Qui appaiono figure a noi molto care: i disegni e le copertine di Emilio Giannelli, i testi sagaci e pungenti di Andrea Muzzi e Enrico Giannelli. 
Passano vent’anni e finalmente il Drago vince: c’è molto da raccontare in “Beati gli ultimi”, titolo di Paolo Corbini, con un’altra generazione che si racconta in un successo insperato e condito dai disegni del già mitico Giannelli, Pizzichini e Pollai. Il Numero Unico è realizzato a Firenze dall’editore dragaiolo Carlo Balocchi.
Passano tre anni ed ecco “Ippomanzia”, titolo ideato dal sottoscritto, dove il pretesto del filo conduttore è quel ferro magico che Benito ha potuto riavere prima della corsa.
Si arriva al 1992, ed ecco il Numero Unico forse più coerente e capace di interpretare una bella stagione. E’ in due volumi, con un cofanetto, e si intitola “Ricamato”, titolo di Enrico Giannelli e copertina del fratello, visto che il drappellone era stato così realizzato.
L’anno dopo siamo di nuovo al lavoro e c’è modo di sbizzarrire la fantasia e soprattutto l’ironia. Si tratta di “035 United Colors of Dragon”, ancora mia l’idea, e tutta la capitaneria vittoriosa è ritratta nuda come la celebre pubblicità della Benetton. C’è un inserto satirico Cuore che è restato davvero nel cuore di chi lo realizzò.
Eccoci al 2001: drappellone realizzato da chi disegnava i manifesti per il cinema, Silvano Campeggi, e quindi tutta la festa prende l’impronta e la vocazione del grande schermo. Non per niente si chiama “Nuovo Cinema Paradiso”, strada dragaiola e film vanno d’accordo, ed è racchiuso proprio nella scatola a forma di pizza cinematografica. Cambiano le generazioni, qualcuno di noi va a divertirsi con la commissione regia della cena ed ecco Susanna Guarino che guida un gruppo di giovanissimi per “D’Oppio”, due volumi che consacrano un grande cavallo e una dirigenza vittoriosa all’esordio. Ed infine “Favoloso”, una festa e una pubblicazione che ripercorrere epiche vicende, con un altro gruppo di giovani guidati stavolta da Giovanni Molteni, carta anticata per una storia nuovissima, con una particolare sottolineatura al fatto che, accaduto soltanto alla Torre, un proprio contradaiolo avesse disegnato il cencio portato a casa. Un viaggio lungo quasi un secolo, un viaggio editoriale che segna il passaggio dei tempi, delle mode ma sempre con una volontà e un entusiasmo che, nonostante l’arrivo di nuovi mezzi di comunicazione, segna la costante e bella presenza di un cartaceo che sprigiona sempre ricchezza e nostalgia. 
Per questo immortale. 

Massimo Biliorsi


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 1 Giugno 2020 dedicato alla Contrada del Drago

domenica 19 maggio 2024

Rubrica: Il Palio al Cinema - Introduzione e "Palio" di Alessandro Blasetti

Introduzione
 
Il Palio di Siena ha assistito attivamente, nel passaggio dal XIX al XX secolo, al mutare della società contemporanea, così aveva fatto con le epoche precedenti. In questa deriva storica, però ha avuto modo di “conoscere” e farsi “raccontare” dai nuovi media, in particolare dai mezzi radiofonici e televisivi; ma in questa rubrica, alla quale ci dedicheremo, la Festa è entrata a far parte anche e soprattutto della storia del cinema italiano e internazionale.
In questo senso ci “avventureremo” lungo una linea storica piuttosto breve, ma intensa, analizzando alcuni dei frame che riguarderanno dei contributi fondamentali. Nelle prossime settimane concentreremo il nostro interesse verso pellicole storiche, che non si sono limitate al racconto del Palio dell’epoca, ma ci hanno mostrato, per quanto fosse possibile, la storia di Siena e d’Italia: quella del Ventennio, quella del cosiddetto “boom economico” e quella del nostro tempo.
Insomma, quella del Palio è divenuta una storia non soltanto orale, scritta o dipinta, ma ha sentito il bisogno e una forte necessità, di essere rappresentata anche sul grande schermo. In effetti, il cinematografo è sorto con quella idea “romantica” e in qualche modo “futurista” del movimento. E se escludiamo, per qualche istante, le immagini della vita contradaiola e quelle del Corteo Storico, l’essenza della velocità e delle falcate dei cavalli sull’anello di tufo risiede in quel desiderio umano, quindi antropologico, che è poi diventato realtà: filmare l’azione, la velocità e fermarla su un supporto per sempre, per poterla rivivere continuamente di generazione in generazione. Ed è questo che ha condotto, in alcuni casi, positivamente all’unione di Palio e multimedialità. Ma quello che ha interessato il cinema successivo, e non quello delle origini, è la rappresentazione del Palio nel suo “rito”, che non è soltanto una corsa di cavalli, ma un “giuoco” serio che, nel conflitto tra le Contrade, ritrova la vera essenza dell’orgoglio cittadino, dell’appartenenza e quindi di un’identità immutabile e sempre nuova. Nel prossimo intervento ci occuperemo di Palio (1932) del regista Alessandro Blasetti.

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 26 Aprile 2020 dedicato alla Contrada di Valdimontone



Palio 
di Alessandro Blasetti (1932) 
 
Come avevamo accennato nello scorso numero, stavolta ci occuperemo del film di Alessandro Blasetti, “Palio” (1932). Avevamo fatto cenno anche di come il Palio, nel passaggio di secolo, si sia “adattato” ai nuovi media: prima la radio, poi il cinema e, per finire, la televisione. Ci eravamo focalizzati, inoltre, su di un aspetto molto interessante, del quale gli amanti del cinema non dovranno mai scordarsi: il sogno “eterno” di fissare per sempre un’azione, perpetuarla nel tempo e soprattutto custodirla. Un impegno non da poco per quanto riguarda, in maniera particolare, il repertorio e l’archivio multimediale della Festa arricchito dall’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione che hanno iniziato a cambiarci la vita. D’altra parte viviamo in quell’epoca, fortunata o meno, non sta a noi sentenziare questo, che Walter Benjamin aveva definito, nel 1936, “della sua riproducibilità tecnica”.
Del film di Blasetti, “Palio”, conosciamo molto bene la trama e non è questa la sede per rammentarla ai lettori e a coloro che, per un motivo o per l’altro, non hanno ancora visto la pellicola (chi ama il cinema, di conseguenza conosce le sue regole: mai fare “spolier”!). E non sarà nostro compito o intenzione, qui, farne un’analisi filmica più precisa. Per questo, dopo la visione del film, invitiamo i lettori interessati ad approfondire il tema attraverso due importanti saggi scritti dalla studiosa Paola Micheli: “Un Palio per il cinematografo”, Il Leccio, Siena, 1997; “Il cinema di Blasetti, parlò così. Un’analisi linguistica dei film (1929-1942)”, Bulzoni Editore, Roma, 1990. 


Nella storia del cinema, e qui intendiamo la finzione cinematografica, il Palio è stato dapprima protagonista assoluto, per poi divenire, in alcuni casi, “comparsa episodica” (oggi gli studiosi la definiscono “cinematografia di promozione turistica”). Una “comparsa” importante, intendiamoci, ma che con la trama principale ha poco collegamento, se andiamo a ridurre il film all’osso.
Ci scusiamo per il gioco di parole, ma “Palio” è un film sul Palio, a differenza, per citarne uno, di “Quantum of Solace” (2008) di Marc Forster, per i motivi sopra citati. Il film del regista italiano, Blasetti, ha avuto l’onore di “nascere” dal soggetto di un senese noto al mondo dello spettacolo come Luigi Bonelli. È il ritratto di una Siena in bianco e nero, che dà vita a una sorta di “realismo” della finzione e, nel contempo, ci mostra una città che non c’è più, almeno sotto alcuni aspetti (interessante, per esempio, è la sequenza che riguarda i lampioni che, al tempo, circondavano, insieme ai colonnini, Piazza del Campo). “Fiction” e “realtà” hanno uno strano rapporto con lo spettatore e riguardo questo sarebbe interessante confrontarci, ma non è questo il luogo, con gli studi condotti da Siegfried Kracauer. Gran parte delle sequenze di “Palio” furono girate in interni e la recitazione degli attori è più teatrale e poco cinematografica. Le sue origini si specchiano in quella tradizione del teatro italiano di stampo ottocentesco, e in questo caso ha dei “ritagli” anche comici, fornendo allo spettatore delle divertenti “gags”. Ma siamo nel 1932, in pieno Ventennio, e quello che vediamo nelle sequenze ci riporta alla mente qualche documentario o filmato dell’Istituto Luce sulla Festa che, particolarmente, era interessato e focalizzato a evidenziare l’importanza delle monture, delle bandiere, dei vessilli e delle gualdrappe. Un racconto “romantico” del Corteo Storico che mette in risalto gli alfieri, le chiarine, che intonano la Marcia del Palio, il Carroccio, quello del tempo, i fantini, i cavalli e altre componenti che marcano con insistenza la natura “antica” della tradizione senese.


Poi, verso la fine del film, dopo una lunga attesa, entrano i cavalli in Piazza, disputano una Carriera interminabile (5 giri), e viene azzardata anche una ripresa con “camera-car” in un breve segmento della Corsa. Altre inquadrature, invece, avvengono dalla Torre del Mangia. Un fatto curioso è che alcune riprese del Corteo Storico furono realizzate il 15 di agosto del 1931, prima della Prova Generale. Ciò che, per certi versi, accomuna la “fiction” di questo film a “La ragazza del Palio” (1957) di Luigi Zampa è proprio la sequenza della Carriera. Zampa, però, al contrario di Blasetti, ha fatto un uso eccessivo del “found footage” mischiando filmati di diversi Palii, prove e immagini relative alle batterie della Tratta. Ciò che fortemente ha caratterizzato la pellicola, prodotta dalla Cines, è la sua attenzione “linguistica” nei confronti dell’italiano e del dialetto “toscano”. La sequenza di apertura presenta delle didascalie, tipiche di un cinema muto, che non esiste ormai più, che servono tuttavia ad enfatizzare l’aspetto dell’”antico”, di un immaginario “medievale” o “rinascimentale”, comune allo spettatore. Oggetto di polemica fu invece il “parlato” degli attori che dialogavano fra loro non in senese ma in fiorentino: un errore imperdonabile.
 
Lorenzo Gonnelli

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme dell' 11 Maggio 2020 dedicato alla Nobile Contrada dell'Oca

 

domenica 12 maggio 2024

La Festa Titolare dell'Oca, e la processione per la Santa


La festa titolare della Nobile Contrada dell’Oca inizia quando abili operai ocaioli, con amore e qualche bercio, montano il fondale: un grande apparato ligneo esposto a fianco dell’Oratorio.
      
L’opera si presenta come un grande scenario architettonico dipinto, in alto le tre figure teologali, fedesperanza e carità, che si appoggiano ad una maestosa trabeazione, sorretta da quattro colonne corinzie.

Il progetto porta la firma di Agostino Fantastici, noto architetto fontebrandino; viene arricchito da una pittura centrale che rappresenta “il matrimonio mistico di santa Caterinarealizzato da Alessandro Maffei; sue probabilmente, anche le decorazioni ornamentali.

Il maestoso altare crea uno scenario meraviglioso, impreziosito dalle bandiere, dai braccialetti e dai canti che scaturiscono per l’accensione del Rione; per quattro giorni Fontebranda si anima, favorendo brindisi e canti che nascono spontanei, accompagnati dal suono dei tamburi, che proviene dalle fonti, punto di partenza di ogni Fontebrandino.


L'Altare - Foto di Pino Bonetto


L’omaggio ai defunti, l’iniziazione, i battesimi, ed il Mattutino, portano l’ocaiolo ad affrontare il giorno seguente, “IL GIRO”: classico saluto alle Consorelle ma impreziosito sul finale, con la processione in onore di Santa Caterina.  

Dopo il rientro da Piazza del Campo, ci si riunisce tutti a San Domenico dove, con devota disciplina, ci “mettiamo in formazione” per la processione:

I primi a partire sono i monturati, che una volta arrivati in fondosi dispongono ai lati della via, alzando la propria bandiera creando così’, una sorta di tunnel bianco rosso e verde, sotto il quale passano i dirigenti della Contrada e gli uomini che si dispongono ai lati dell’altare.      


Il "tunnel" di bandiere - Foto di Marco Francioli


A seguire le donne con in mano le candele, simbolo di luce e speranza, avanzano intonando l’inno di Santa Caterina “a gloria di Siena ed Italia”, con fierezza e commozione, ed esplodono in un pianto quando “all’imbocco” di via Santa Caterina, si ha la visione più bella che si possa avere: le bandiere che incorniciano la via, i braccialetti che la illuminano e rendono magica quella visione e che sembrano quasi fiaccole, a causa sicuramente degli occhi lucidi; dietro, in fondo, ma non perché meno importanti, i bambini: anche loro cantano l’inno e portano in mano, fieri e delle volte impacciati, il giglio, fiore di Santa Caterina; lo poggiano con profonda devozione alla base dell’altare e si dispongono lateralmente per far passare Lei, la Santa, un busto d’argento sbalzato opera di Giuseppe Coppini del 1807, che porta in sé, nella sua base, una reliquia di Caterina, un pezzetto di falange; preceduta e solennemente accompagnata da un tamburino e una coppia di alfieri, viene trasportata da quattro uomini dell’Oca, posta sopra all’altare e il Correttore da inizio alla Messa Solenne.

L’ocaiolo lo sa, quella non è una semplice messa ma il momento in cui la Contrada, diviene a tutti gli effetti FAMIGLIA: gli ocaioli si scambiano sguardi, molte volte pieni di lacrime per la forte emozione che stanno provando, percepita anche da chi ocaiolo non è, consapevoli di stare vivendo un momento particolare; gli sguardi lucidi confluiscono verso gli occhi della Santa, creando una sorta di filone tra gli ocaioli di ieri, di oggi e di domani, che ci fa capire di essere parte di una grande e splendida famiglia, quella di F
ontebranda.

Caterina Manganelli     


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme dell' 11 Maggio 2020 dedicato alla Nobile Contrada dell'Oca

domenica 28 aprile 2024

Quando il Montone cambiò Patrona e festa titolare

 

A Siena tutti sanno che il Montone è la prima fra le Contrade a celebrare la festa titolare, e per la città quella data segna l'inizio della “bella stagione” che culmina nello svolgimento dei due Palii.

Ma è poco noto che non sia sempre stato così; fino al 1909, infatti, la comparsa della Contrada di Valdimontone girava la prima domenica successiva al 15 di Agosto, ricorrenza della prima patrona: Maria Assunta in cielo.

Per capire i motivi del cambiamento, bisogna fare un passo indietro fino alla metà del 1700 quando, in seguito a screzi con la compagnia della SS.Trinità, l'oratorio di Contrada fu spostato nella vicina chiesa di S.Leonardo, al tempo inutilizzata e spoglia (nel 1978, comunque, l'oratorio della SS.Trinità è tornato a essere chiesa ufficiale della Contrada, mentre la sconsacrata chiesa di S.Leonardo è ora appendice dell'apparato museale).

chiesa di San Leonardo


Si presentò dunque la necessità di allestire un altare con l'immagine dell'Assunzione, e si chiese aiuto al nobile Fabio Bichi, canonico del Duomo di Siena nonché facoltoso protettore del Montone.

Il reverendo Bichi acconsentì, ma, per motivi solo a lui noti, diede ordine di far dipingere una tavola raffigurante la Beata Maria Vergine del Buon Consiglio e non l'Assunta.

Fu così che il 10 luglio 1757 detta immagine sacra venne esposta nella chiesa di S. Leonardo: il destino volle che il Montone trionfasse nel palio immediatamente successivo, quello del 16 agosto 1757!

Per ancora un secolo e mezzo, comunque, la Contrada continuò a celebrare la festa patronale a metà Agosto, pur riservando particolari festeggiamenti alla Madonna del Buon Consiglio nella sua ricorrenza di fine Aprile.

Solo nel 1909 fu deciso di celebrare compiutamente l'intero programma della festa titolare in onore della Santa Patrona la domenica immediatamente successiva al 26 di Aprile, e da quel momento il Montone è la Contrada che per prima nell'anno effettua il tradizionale giro di omaggio alle consorelle e alle autorità.


Mauro Massaro




Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 26 Aprile 2020 dedicato alla Contrada di Valdimontone

domenica 21 aprile 2024

Amaranto, un nome che fa rima con rimpianto - di Roberto Filiani

"A cavallo è er mejo de tutti, ma er Palio è n'antra cosa..."

Le eloquenti parole di Beppe Gentili, confermate da tanti altri fantini dell’epoca, sono la perfetta sintesi della carriera di Amaranto Urbani, probabilmente uno dei fantini più sfortunati della storia.

Arrivò a Siena da Cantalupo in Sabina e debuttò appena ventenne montando Wally per la Giraffa nel luglio 1932, lo chiamarono Boccaccia, per la sua bocca “a ranocchia”, ma per tutti restò sempre e semplicemente Amaranto.


foto ilpalio.org


Già dagli esordi Amaranto dimostrò ottime doti, in particolare in partenza.

Nel 1934 si legò, in un curioso connubio cromatico, con la Torre, ma quello fu un anno decisamente sfortunato: a luglio pur lottando nelle prime posizioni il Palio lo stravinse il Meloncino nella Civetta ed in Salicotto arrivò la poco ambita cuffia; ad agosto andò ancora peggio, nel famoso Palio del tradimento di Pietrino al Nicchio, l’Oca vinse, ancora col Meloncino, con Amaranto relegato in fondo al gruppo sull’anziana e malconcia Lina.

Assente nel 1935, l’anno seguente Amaranto riuscì a mettersi in particolare evidenza dando praticamente una svolta positiva alla sua carriera.

Il riferimento obbligato è al Palio dell’Impero, corso il 2 luglio 1936, partito primo, nella Chiocciola sull’esperta Melisenda, fu protagonista di due duelli accaniti prima al Casato dove fece cascare lo Sgonfio nella Pantera e poi con il super favorito Pietrino, nell'Oca con il mitico Folco, annientato a nerbate e controllato fino allo scoppio del mortaretto che vide trionfare la Giraffa col quasi ignaro Bovino aggrappato a Ruello.

Pur sacrificato in un ruolo di difesa Amaranto aveva disputato un gran Palio chiuso con un secondo posto bissato nell'agosto successivo nel Nicchio con Folco quando, dopo una brillante partenza, il nostro protagonista non riuscì a recuperare su Tripolino nel Drago con Aquilino.

Il Palio del luglio 1939, disputato dopo tre anni di assenza, confermò tutte le caratteristiche di Amaranto: nel Nicchio su Ruello, due giri da protagonista prima di perdersi a vantaggio di Pietrino e Tripoli che si contesero la vittoria.

Probabilmente quest’altra sconfitta, con uno dei migliori cavalli del momento, accentuò la sofferenza di Amaranto, vittima da un’oscura e crescente paura di vincere.

Alla ripresa del Palio dopo la guerra Amaranto si legò alla Tartuca, in un modo che merita di essere raccontato.

In un’Italia ancora stravolta dalla guerra la notizia della ripresa del Palio arrivò anche ad Amaranto che, nel frattempo, pur impegnato in altri mestieri, non aveva abbandonato la sua passione.

A luglio i quasi impossibili collegamenti post-bellici avevano impedito ad Amaranto di raggiungere Siena e per il successivo Palio d’agosto si profilava una nuova assenza dal Campo.

Invece a Siena non era stato dimenticato e qualcuno pensava a proprio a lui come mossa a sorpresa per vincere il Palio.

La Tartuca, con la promettente Giuliana, dopo esser riuscita a contattare telefonicamente Amaranto organizzò un viaggio, davvero tribolato ed avventuroso, per riportare il fantino laziale a Siena e tenerlo nascosto fino al momento opportuno che arrivò alla quarta prova.

L’accoppiata con la svelta Giuliana faceva davvero ben sperare la Tartuca ma, nella notte precedente alla carriera, la cavalla accusò dei problemi fisici che preclusero di fatto la vittoria nonostante Amaranto fosse riuscito, ancora una volta a partir primo ed a rimanere in testa per tutto il primo giro.

Appena scoppiato il mortaretto, che sancì il trionfo della Civetta con l’Arzilli su Folco, tutto il popolo delle contrade era già sul tufo a chiedere la disputa di un altro Palio, un Palio davvero straordinario, il celeberrimo Palio della Pace che vedrà, suo malgrado, attore non protagonista proprio il nostro Amaranto.

Come è ben noto quello doveva essere il Palio del Bruco, a tutti i costi, in tutti i modi, con l’accoppiata Arzilli-Mughetto favorita anche e soprattutto da una fittissima rete di accordi e trame che avrebbero riempito anche le tasche, particolarmente sguarnite dopo la guerra, di tutti i fantini.

Amaranto venne confermato sulla scattante Elis e da subito si comprese che, nonostante le varie pressioni, la Tartuca avrebbe tirato a vincere non allineandosi al volere generale.

Amaranto, quindi, andava fermato in modo diverso e ci pensò il Mossiere Lorenzo Pini ad assolvere al ruolo: per ben due volte la Tartuca scappò nettamente prima col Bruco fermo al canape, in entrambe le occasioni il Mossiere annullò la mossa scatenando l'ira dei tartuchini che, capeggiati da un giovanissimo Silvio Gigli, ritirarono dalla carriera il proprio cavallo, fatto senza precedenti nella storia del "Palio moderno".

Inutili furono le resistenze di Amaranto che venne letteralmente trascinato via dalla piazza, eroe, suo malgrado, di quella che venne definita dal capitano tartuchino Torquato Rogani “una vittoria invisibile e senza teca”.

Imbrigliato da episodi di portata storica eccezionale Amaranto aggiungeva un nuovo rimpianto alla sua lunga lista nera, nulla di paragonabile a quello che sarebbe accaduto nel Palio successivo.

La tratta favorì l'Oca che decise di affidare il grande Folco ad Amaranto che dalla mossa, nonostante la vicinanza della Torre, uscì con un vantaggio notevole, con il Montone, maggiore antagonista, completamente fermo tra i canapi, all'improvviso, però, con un ritardo clamoroso e tra lo stupore generale, la corsa dell'Oca venne fermata dal ripetuto scoppio del mortaretto.

Ancora il Mossiere Pini ed il mortalettaio Ragno, appassionato montanaiolo, avevano fermato la volata di Amaranto verso la tanto desiderata gloria.

Rientrato nell'Entrone affranto ed incredulo Amaranto si trovò solo di fronte al suo dramma e tornò tra i canapi molto provato, riuscì comunque di nuovo a partire primo ma già a San Martino si concretizzò la rimonta di Ganascia che col nerbo difese per tre giri la sua posizione infliggendo al fantino dell'Oca un'umiliazione fin troppo pesante.

Per il Palio successivo Amaranto venne confermato dall'Oca su Salomè, anche se la fiducia nei suoi confronti iniziava a vacillare tanto che nelle prove si alternarono con lui anche i vecchi Pirulino e Porcino.

Con grande determinazione Amaranto a San Martino riuscì a prendere la testa ma la mantenne per un solo giro, battuto stavolta dall’emergente Beppe Gentili.

A chiudere e confermare lo sfortunatissimo connubio con l'Oca lo straordinario del 18 maggio 1947 terminato con la rovinosa e drammatica caduta al primo San Martino che costò la vita al velocissimo purosangue Cesarino che aveva appena preso la testa dopo una partenza a razzo dalla posizione di rincorsa.

Il secondo posto nel luglio 1947, nella Tartuca sul poco considerato Gioioso, reso pimpante dal vecchio Bubbolo tutto fare della stalla, è solo l’ennesimo amaro dato statistico.

Nell’agosto successivo Amaranto fu confermato nella Tartuca sulla quotata Salomè ma sul fantino ormai iniziarono a serpeggiare ulteriori dubbi e la fiducia nei suoi confronti veniva meno, tanto che la monta fu in bilico fino all’ultimo.

Il Palio lo vinse la Torre, Amaranto pur partendo tra gli ultimi arrivò terzo ma subì lo stesso una dura contestazione a fine corsa che lo amareggiò a tal punto da fargli promettere di non tornare più a correre nella Tartuca.


Ormai consumato da tante delusioni ed ossessionato dal miraggio della vittoria Amaranto corse due Palii anonimi nel 1948 per poi rilanciarsi, a sorpresa, nel luglio 1949 disputando una grande carriera nel Bruco con lo sconosciuto Mistero battuto solo dalla giornata di grazia del giovane Bazza nella Chiocciola.

La tratta del Palio d'agosto assegnò Mistero alla Torre che, dopo quindici anni e dopo la militanza in Fontebranda, scelse proprio Amaranto preparando il Palio in tutti i dettagli.

Forse per la prima volta, nella sua ormai lunga carriera, Amaranto si presentò tra i canapi con tanti soldi da spendere ed il conseguente appoggio di gran parte degli altri fantini.

Il lavoro della dirigenza torraiola sembrò poter sortire gli effetti sperati: Amaranto, risalito indisturbato dal quinto posto fino allo steccato, riuscì a partire nettamente primo mentre la Civetta, principale antagonista con l'Arzilli sulla velocissima Popa, subiva prima l’ostacolo tra i canapi del Terribile nella Selva e poi veniva frenata dalle nerbate di Pietrino nell’Istrice.

Ma anche stavolta qualcosa andò di traverso: l'Arzilli, con il quale Amaranto aveva avuto qualche dissidio di natura economica, riuscì a divincolarsi al secondo Casato dal duro ostacolo ed in poche falcate raggiunse e staccò nettamente la Torre.

Una possibile vittoria storica si trasformò in un pianto disperato...

La malasorte non risparmiò altri duri colpi per Amaranto anche nei suoi ultimi incolori spiccioli di carriera, i clamorosi fatti dell’agosto 1952 sono emblematici in tal senso.

Il veloce Miramare faceva ben sperare Amaranto ed il Bruco, afflitto da un digiuno trentennale, la posizione allo steccato ed i tanti soldi a disposizione rendevano la situazione ancora più favorevole.

Ma, all’improvviso, con la rincorsa ancora fuori dai canapi, una banale forzatura mandò sul tufo il povero Amaranto, riportato a braccia nell’Entrone e poi sostituito, in barba al regolamento, da Falchetto “prelevato” dalla Chiocciola per evitare l’invasione di pista dei brucaioli.

Ormai vittima di critiche, spesso ingenerose e fin troppo pungenti, Amaranto corse il suo ultimo Palio nell’agosto 1953 per la Civetta, lasciando in molti contradaioli un ricordo di struggente rammarico.

Morì a soli quarantaquattro anni sognando di vincere un Palio, il suo più grande rimpianto di fantino “onesto”.


Roberto Filiani

 

giovedì 21 marzo 2024

L’Oratorio di San Giovannino della Staffa


Formata dai rioni delle Compagnie militari di San Giorgio e di Pantaneto, a cui si aggiunse più tardi anche una porzione della Compagnia di Spadaforte, la Contrada del Leocorno, dopo aver a lungo tenuto le proprie adunanze nelle abitazioni dei capitani, e specialmente nel palazzo dei nobili Sozzini, riuscì alla fine del XVII secolo ad ottenere ospitalità nella cappella interna della Chiesa di San Giovanni Battista in Pantaneto, officiata dall’omonima compagnia laicale. La convivenza con i confratelli della compagnia si rivelò ben presto difficile e la contrada dal 1720 si adattò a tenere le adunanze presso l’Osteria dell’Angelo, situata nella piazzetta di Follonica.
Rinnovato l’accordo per l’uso della cappella in San Giovanni Battista nel 1776, il Leocorno vi rimase fino al 1869, anno in cui riuscì ad ottenere la chiesa di San Giorgio, rimasta libera per il trasferimento del seminario arcivescovile. Finalmente, attraverso una convenzione stipulata nel 1966 con la curia senese, il Leocorno ebbe ad uso perpetuo la chiesa di San Giovanni Battista detto della Staffa, nome derivato dall’antica denominazione dell’attuale via Sallustio Bandini.
Nell’Oratorio sono conservate numerose ed importanti opere d’arte, alcune realizzate da artisti che furono anche fratelli della compagnia di San Giovanni in Pantaneto, come Domenico Manetti e Bernardino Mei, che nel 1648 fu anche priore della compagnia.



La chiesa ha una semplice ma elegante facciata in cotto realizzata da Giovan Battista Pelori nel 1537.
Nella cappelletta d’ingresso troviamo una fila attribuita a Deifebo Burbarini che rappresenta il “transito di San Giuseppe“.
All’interno gli affreschi delle volte sono stati eseguiti da Dionisio Montorselli, Astolfo Petruzzi pittore italiano del periodo barocco, attivo principalmente a Siena ma anche a Spoleto e Roma, allievo di Francesco Vanni, lavorò con Ventura Salimbeni e Pietro Sorri.
Alle pareti, sopra un grande coro ligneo, realizzato ad opera di diversi maestri falegnami tra il 1579 e il 1605, sono collocate 13 tele con le storie di San Giovanni Battista, raffiguranti, partendo da sinistra: “Visione di Zaccaria“ di Raffaello Vanni;  “Visitazione“ di Giovan Battista Giustammiani, detto il Francesino, pittore attivo a Siena, forse è di origine francese; “Natività del Battista“ di Domenico Manetti; “Gesù bambino e San Giovannino“ di Rutilio Manetti; “San Giovanni nel deserto“ di Astolfo Petrazzi(1639); “Predica del Battista“ di Rutilio Manetti; “Angelo annunziante“ di Dionisio Montorselli.
Guardando l’altare maggiore, probabilmente realizzato da Flaminio del Turco nel 1609, troviamo il “Battesimo di Gesù” sempre di Rutilio Manetti; “Annunziata” di Dionisio Montorselli; “il Battista addita il Redentore ai farisei“ opera dei fratelli Rutilio e Domenico Manetti; “San Giovanni dinnanzi a Erode“ di Bernardino Mei suo anche la “decollazione del Battista“; “Danza di Salomè” di Deifebo Burbarini;
“San Giovanni portato al sepolcro“ del Francesino.
Infine, collocata su un cavalletto, una tavola del XIV secolo raffigurante la Madonna della Pace di Francesco di Vannuccio, pittore italiano documentato tra il 1356 e il 1389,particolarmente venerata durante la seconda guerra mondiale.
Nei locali adiacenti alla chiesa sono conservate altre preziose opere d’arte, soprattutto nell’ex cappella della Madonna della Pace ora sala delle adunanze, come due tele di Aurelio Martelli “La nascita e il transito della Madonna“ (1667).
Ai piani superiori si trovano alcuni dipinti provenienti dall’Oratorio della Congregazione degli Artisti, che ebbe origine alla metà del XVII secolo sotto l’Immacolata Concezione, che nel 1914 deliberò di entrare a far parte della Contrada del Leocorno conferendole tutti i suoi oggetti d’arte ed anche il suo Archivio.
 
Caterina Manganelli




Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 20 Giugno 2020 dedicato alla Contrada del Leocorno

Crediti foto:
Facciata di San Giovannino - Autorizzazione CC BY 3.0 (autore Sailko)
Tabernacolo di Pier Luigi Olla - Foto di Matteo Ricci
 

sabato 2 marzo 2024

L'inganno del tempo: gallo nero e gallo bianco.


Quante volte nella nostra vita al suono della sveglia ci siamo girati dall' altra parte
bofonchiando “Ancora 5 minuti!”.
Io personalmente tutte le mattine. Confido di aver messo una sveglia ausiliaria e torno a sognare placidamente. I problemi cominciano quando mi accorgo che il mio sonno supplementare non è stato di 5 ma di 35 minuti.
Il resto sembra un copione già scritto: sequele di improperi e accidenti vari con l’inevitabile conclusione di essere in ritardo. Il tempo già non é galantuomo ma la mattina poi è un autentico tiranno. Non solo per i ritardatari cronici come me. Tutti siamo affamati di tempo; un bene che non ci basta mai. Per averne a disposizione sempre di più ci inventiamo stratagemmi sempre più articolati per contrastare il suo inesorabile scorrere.
Giusto ieri mentre sfrecciavo fra le colline del Chianti -ovviamente in ritardo con l’obiettivo a ingannare il mio tempo personale dalle maghe dei nostri giorni: le estetiste -mi sono ricordata di un racconto, una leggenda sotto alcuni aspetti, in cui l’ ingegno dell' uomo un po' di tempo e' riuscito a guadagnarlo davvero.

immagine tratta dal sito https://www.chianticlassico.com/

La storia è ambientata proprio in queste terre, in quel periodo mistico e complicato che è il Medioevo. La regione che già da allora si chiamava Chianti è sconquassata da due nemici di sempre: Siena e Firenze.
Non era solo una disputa di principio badate bene, come un' antipatia “a pelle”. La posta in gioco allora era molto più concreta. La posizione strategica tra il Valdarno il Fiorentino il Chianti nel centro esatto di un palcoscenico naturale di guerre.
In tutto questo dovete considerare le mire espansionistiche di Siena. Per spezzare una lancia a loro favore occorre osservare che la loro politica “estera” non dava i frutti sperati. A nord non riuscivano a fare breccia con i fiorentini e persino a sud le realtà comunali di Montepulciano e Montalcino giurano fedeltà al giglio. I tentativi di assedio poi non vanno a favore della controparte balzana.
Ma tornando al nostro racconto, le cronache dimostrano che né a parole né ad armi si riesce ad avere un risultato definitivo che garantisca una tregua un po 'più duratura.
La storia narra che in seguito all’accordo di Fonterutoli del 1208 entrambi gli schieramenti concedano di disputare una gara. I partecipanti sono un cavaliere senese e un cavaliere fiorentino. Lo svolgimento e' il seguente: i due sfidanti dovranno partire dai loro rispettivi accampamenti (posti alle porte delle rispettive città) al cantare del gallo e correre a spron battuto fino a che non si incontreranno. In quel punto, dove giglio fiorentino e balzana senese si incontreranno, lì sarà posto il confine e non se ne parlerà più.
Vengono scelti i galli: a Siena un gallo bianco e a Firenze un gallo nero.


Ed è qui che entra in scena l'ingegno umano (e forse il racconto diventa leggenda). Il canto del gallo infatti era un modo all’epoca per scandire il tempo. E' noto tutt' oggi che il gallo canta con il sorgere del sole. Il lampo di genio è stato far credere al gallo che il sole (per lui) doveva sorgere prima. Per farlo si è reso necessario fare leva su un bisogno ancora più ancestrale del cantare: la fame.
I senesi dettero al loro gallo dal manto candido mangiare a sazietà in modo che al sorgere del sole cantasse con un fragore tale da svegliare tutto l’ accampamento. I fiorentini, al contrario, al loro gallo non dettero da mangiare. Il povero pennuto quindi vinto dai morsi della fame se ne infischia del colore del cielo e in anticipo rispetto al sorgere del sole comincia a cantare.
Poco importa se tutt' intorno fosse ancora coperto dal velo della notte. Il segnale convenuto aveva squarciato l’aria forte e chiaro. Il cavaliere con lo stemma del giglio si infila l’elmo sale sul suo destriero e galoppa per ben 12 legge prima di incontrare il suo collega accompagnato dallo stemma della balzana. Per dare un riferimento si incontrano pressappoco nella zona di Castellina in Chianti.
Non oso immaginare la rabbia e lo smacco dei “sanesi” di trovarsi i confini guelfi a un tiro di schioppo dalle proprie mura. Conoscete il detto “Chi perde non cogliona ma ha diritto a sclerare”?
Manco a dire che la parte lesa ghibellina potesse presentare ricorsi o altro perché nell' accampamento guelfo c'erano i <<notari senesi>> presenti nel momento in cui quel galletto ha cominciato a cantare.
Mi diverto ad immaginare nobili e plebei, prelati e laici dietro le possenti mura che tutt'oggi possiamo ammirare, tutti insieme a mangiarsi le mani tirando improperi ed anatemi con gli occhi alzati al cielo per essere partiti in ritardo.
Non vi sembra di aver appena vissuto un deja-vù !?

Eleonora Sozzi


Bibliografia:
“La storia del Chianti”, Giovanni Righi Parenti- Edizioni Periccioli- Siena

si consiglia la visione del filmato realizzato dal Consorzio del Chianti Classico

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