sabato 8 giugno 2024

Le prime testimonianze documentali dell'esistenza della Tartuca


Per quanto gli storici ed eruditi senesi del Settecento – come il Gigli, il Macchi, il Torrenti – ritenessero che la Tartuca fosse la Contrada più antica di Siena, essendo compreso nel suo territorio il nucleo della città altomedievale (ovvero Castelvecchio), non c’è alcuna certezza, né testimonianza documentaria, che ciò corrisponda al vero. Di sicuro i tartuchini presero a vantarsi di questa primogenitura, tanto da metterla nero su bianco nella Memoria istorico cronologica della Contrada della Tartuca, cioè la prima trattazione delle vicende storiche della Contrada, pubblicata in occasione della solenne consacrazione dell’oratorio nel 1818.


In realtà non sappiamo con precisione quando gli abitatori di Castelvecchio, delle Murella, delle vie dei Maestri e delle Cerchia, di Porta all’Arco e della castellaccia di Sant’Agata cominciarono ad aggregarsi sotto il nome della Tartuca. Nelle sporadiche menzioni di Contrade che si susseguono lungo il corso del XV secolo la Tartuca non viene citata, almeno direttamente. Con estrema probabilità un gruppo di abitatori della Compagnia militare di S. Pietro in Castelvecchio prese parte alla pugna del 1 marzo 1495 sotto l’insegna della famiglia Tegliacci, a quell’epoca dimorante nell’omonimo palazzo di via S. Pietro (oggi palazzo Buonsignori, sede della Pinacoteca nazionale). Questi pugnatores sponsorizzati dai Tegliacci avrebbero potuto costituire l’embrione contradaiolo della Tartuca. Si noti infatti che la rigida attribuzione dei territori delle antiche Compagnie militari alle Contrade è in buona parte frutto della fantasia interessata del conte Pecci, colui che riportò in vita l’Aquila. Come dimostrano le zone di residenza dei primi ufficiali della Contrada che ci sono noti, a formare il territorio della Tartuca concorsero porzioni, anche abbondanti, di S. Quirico in Castelvecchio e appunto S. Pietro in Castelvecchio, oltre ovviamente alle canoniche Porta all’Arco e Sant’Agata. Inoltre, almeno fino all’emissione del Bando sui nuovi confini del 1730, via S. Pietro era considerata dagli storici ed eruditi senesi facente parte della Tartuca. L’ipotesi che una parte della schiera dei Tegliacci nel 1495 fosse l’espressione primordiale della successiva Tartuca, non è dunque affatto peregrina.

Ma purtroppo attestazioni documentarie della Tartuca non si trovano fino all’epoca della guerra fatale col tiranno Carlo V ed il suo bieco scherano Cosimo de’ Medici. La Contrada di Castelvecchio non prese parte alla grande caccia ai tori del 1506, descritta doviziosamente da un anonimo visitatore fiorentino e che vide in Campo ben 12 delle Contrade attuali. La Tartuca fu però anche l’unica che non partecipò neppure alla più celebre fra tutte le cacce ai tori tenutesi in Piazza del Campo: quella del 15 agosto 1546. I motivi di questa assenza sono ignoti. La possibilità che la Tartuca non si fosse ancora formata parrebbe da scartare, in virtù della documentazione di poco posteriore che, al contrario, ne certifica l’esistenza anche prima della caduta di Siena. Rimangono in campo tutte le altre varie congetture: i tartuchini non si cimentarono nella caccia del 1546 per motivi politici (lo spettacolo pubblico doveva celebrare l’allontanamento dei Noveschi dal governo), oppure per mancanza di denari, o forse per scarsità di uomini? Le carte oggi a conoscenza degli studiosi tacciono.


Si consideri comunque che per tutta la prima metà del Cinquecento le testimonianze scritte (cioè quelle a noi note) sulle Contrade sono infinitamente poche, e che non si può escludere in assoluto che la Tartuca – al pari delle altre 4 mancanti nel 1506: Bruco, Civetta, Leocorno, Pantera – non si sia già costituita precedentemente alla prima citazione documentaria. Ad accrescere il mistero, quella che forse è davvero la prima notizia ufficiale dell’esistenza della Tartuca è contenuta in un foglio senza data, ma incollato al manoscritto che registra le note organizzative della caccia del 1546. Questa carta non datata riporta l’esito di un’altra caccia di tori dell’epoca in questione, e quindi dimostra come la Tartuca già esistesse. D’altronde la partecipazione agli spettacoli pubblici era facoltativa e non tutte le Contrade presenziavano di volta in volta (a questa caccia dalla data sconosciuta mancarono, ad esempio, Aquila, Civetta e Montone). Chi scrive aveva a suo tempo avanzato l’ipotesi che la caccia in questione potesse essere quella del 15 agosto 1555, svoltasi nella piazza grande di Montalcino dove si erano ritirati i patrioti irriducibili; ma gli elementi a suffragio di questa teoria sono comunque labili, per quanto affascinanti.

Arresasi anche la Repubblica ritirata in Montalcino, i Senesi superstiti rientrarono in patria e si cercò di costringerli ad onorare l’usurpatore mediceo con una grandiosa caccia di tori da allestirsi nel 1560 alla venuta dell’esecrato Cosimo. È in tale contesto che la Tartuca viene finalmente citata nei documenti, al pari delle altre 16 consorelle. La Contrada di Castelvecchio appare avere una consolidata prassi organizzativa, tale da non poter lasciare spazio a dubbi circa la sua esistenza antecedentemente allo scoppio della guerra con l’impero. Ad ulteriore riprova di ciò, la Contrada aveva la propria bandiera in deposito presso la chiesa di Sant’Agostino, evidentemente da prima dell’assedio. Non solo, ma già possedeva un carro a forma di tartaruga – detto appunto “la tartuca” – che era certamente servito nelle cacce ai tori precedenti ed era conservato in qualche rimessa dell’Opera del Duomo durante gli anni della guerra.

Rimane da dire – o meglio da ribadire – che il nome “Tartuca” non è certamente di derivazione spagnola, come una vulgata facilona e incolta prese ad ipotizzare numerosi decenni fa. Il lemma – peraltro attestato nei documenti senesi più antichi nella forma “Tartucha”, a riprodurre graficamente la tipica aspirazione della c di matrice locale – ha bensì un’origine tardo latina, addirittura su una base del sostrato etrusco-tirrenico. Secondo le più recenti indagini linguistiche e filologiche, insomma, tartuca (presente con le sue varianti similari tartuga, tortuca, tortuga nelle lingue romanze) è la forma più antica dell’italiano, che poi si modernizza in tartaruga a partire dal XVI secolo. Parrebbe perciò che a Siena il vocabolo antico si sia cristallizzato nel nome della Contrada, sopravvivendo nei secoli.

Giovanni Mazzini

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 14 Giugno 2020 dedicato alla Contrada della Tartuca



domenica 2 giugno 2024

Le strade della Giraffa: lo specchio della storia di Siena

“Il mio materiale (...) è stato raccolto dagli scritti insignificanti, assolutamente privo di pretese letterarie, e da vecchi soldati (...) ho basato la verità della mia storia su di loro, esaminando i loro racconti e confrontandoli con quello che avevo scritto, e quello che mi hanno detto con ciò che avevo sentito (...) e da tutti questi materiali l'intero tessuto della mia storia - la mia vera storia - è stato tessuto”.

Così scriveva la principessa bizantina Anna Comnena, una delle prime donne conosciute che ha scritto di storia nella storia (e scusate il rigiro di parole).

Nata a Costantinopoli il 2 dicembre 1083, muore, sempre a Costantinopoli nel 1153, ed è figlia dell'imperatore Alessio I Comneno e di Irene Ducaena.

L’ho presa larga, direte, per raccontare la storia del rione e delle strade dell’Imperiale Contrada della Giraffa.

Ma la ricostruzione dei secoli che hanno vissuto questi vicoli ben si adatta a quella visione del raccontare. Su queste strade, in questi vicoli, attraverso i secoli, hanno camminato i personaggi più importanti di Siena, quelli che ne hanno determinato i nodi storici, come le persone più povere, i vagabondi, le prostitute. E ancora mistici e papi e principi e regine.

E poi letterati che ne hanno raccontato la suggestione ("Qualche sera, io escivo e andavo in Piazza di Provenzano: c’era più fresco e vedevo la campagna doventar madreperlacea, dietro le mura della città, (...) Quando m’allontanavo dal murello, i tre lampioni della piazza erano già stati accesi, la facciata della Chiesa era più grigia, la cupola pareva per sparir nel cielo con la sua palla dorata che non luccicava più. Via Lucherini, in salita, era oscurissima: io tornavo a casa toccando uno per volta i colonnini dalla parte del mio marciapiede". Federigo Tozzi, Bestie).



Un rione (e la sua Contrada) esplicitamente ricordati già dallo pseudo Gentile Sermini (con questo nome è stato fino ad oggi conosciuto quello scrittore abbastanza misterioso, del quale si sa poco o niente, che è stato recentemente identificato con l’aristocratico Antonio di Checco Rosso Petrucci) alla fine del ‘400 quando descrive un gioco di pugna. Uno spicchio di città che si porta dietro la memoria del leader ghibellino Provenzano Salvani e della sua famiglia della quale si cercò, nella Siena guelfa, di “ripulire” la storia obliterando lo scomodo passato filo-manfrediano di colui che aveva cercato “di recar tutta Siena alle sue mani”. Salvo poi vedere che Provenzano Salvani Siena non la tradì mai, anzi morì per lei e per difenderla. E qui, i Salvani (estinti nel 1723), avevano i loro principali possedimenti il cui ricordo è rimasto nella toponomastica dell’area: piazza e via Provenzano Salvani ne sono l’esempio. Quindi, strade che vissero la gioia del trionfo di Montaperti, la sconfitta dello stesso Provenzano nella battaglia di Colle Val d’Elsa nel 1269, ed il passaggio dalla Siena ghibellina a quella guelfa.

Dopo essere il centro pulsante della politica, il rione diventa sostanzialmente un quartiere malfamato, fatto di povera gente e prostitute. E anche questo lascia una traccia profonda nell’intitolazione delle strade. La casa di tolleranza di Vicolo della Viola (prima detto vicolo del Buon Costume) e un’altra presente in via di Provenzano vengono chiuse, addirittura, il 1° gennaio 1927 dopo forti proteste dei Giraffini per “ragioni di moralità e di decenza” dato che, specie di notte, provocavano “scene e scenette punto edificanti” (questo articolo, tratto da “La Nazione” del 31 dicembre 1926, mi fu segnalato a suo tempo dall’amico Duccio Nassi, che oggi ci ha lasciato ma che tutti, giraffini e non, ricordiamo con immenso affetto).

Via dei Baroncelli (sono di parte, lo so) ha una storia in itinere. Si credeva che il suo nome (o almeno io stessa l’ho creduto fino ad ora) derivasse dalla Compagnia Laicale di Sant’Anna dei Ciechi e Stroppiati, fondata nel 1624 per accogliere ed effettuare attività di mutua assistenza a poveri ciechi e storpi, maschi e femmine, e che aveva sede sotto le volte della chiesa di Provenzano. L’oratorio della Compagnia, officiato per un certo periodo anche dalla Contrada della Giraffa, si trovava appunto verso la metà di via dei Baroncelli. Pensando ad una strada dove persone con handicap fisici e poveri chiedevano l’elemosina e cercavano aiuto dai confratelli, si è ipotizzato che ciò avesse lasciato traccia nel nome attestato nello stradario del 1789 (prima la strada era detta Costa di Sant’Anna). Ora qualche dubbio viene, perché dal fondo dell’Archivio della Collegiata di Provenzano sono emersi, in questa stessa zona, possedimenti dell’importante famiglia senese dei Baroncelli, benefattrice della chiesa legata alla Vergine dei Miracoli.

Dicevamo quartiere povero e destinato alle case di piacere soprattutto da quando, durante la dominazione spagnola, siamo nel 1548, le truppe occupano, tra gli altri, anche il convento di San Francesco.

Ed eccoci al fatto che segna il completo cambiamento dell’area: la tradizione vuole che proprio un soldataccio spagnolo (poi chissà come andò davvero la storia, ma poco cambia nello sviluppo degli eventi futuri) spari ad un'immagine della Madonna (una delle tante) che si trovava sulla facciata di una delle case del rione. La tradizione vuole che questa immagine fosse una “Pietà”, cioè Maria che teneva in braccio il figlio morto. La tradizione vuole che proprio di fronte alla stessa icona fosse solito fermarsi a pregare Bartolomeo Garosi, conosciuto come Brandano, mistico e profeta che decretò, molti decenni prima che si avverassero i fatti, che tutta Siena si sarebbe recata a pregare in Provenzano e che lì sarebbe stata la salvezza della città.


Di fatto lo sparo ci fu (se alla Madonna di Provenzano si toglie la “veste” d’argento si vede benissimo il foro di proiettile) e coloro che assistettero al fatto si adoperarono per rimettere insieme i pezzi della statuetta in terracotta. Da allora la Vergine (senza il figlio in braccio, anzi, senza braccia, come la vediamo ancora oggi) iniziò a dispensare grazie e iniziò a nascere, intorno a lei un culto ed una devozione tale che si riempirono le strade di pellegrini provenienti da ogni luogo. Di questa “presa” che la Vergine dei Miracoli aveva sul popolo ne sono (intelligentemente) ben consapevoli i Medici, che dopo la caduta di Siena nel 1555 alla fine dell’assedio, sostennero e promossero il culto alla Madonna di Provenzano divenendo i maggiori mecenati nella costruzione del suo Tempio (consacrato nel 1611).

E con la costruzione della chiesa di Santa Maria della Visitazione, eh sì, questa è la dedicazione di Provenzano, le strade della Giraffa riacquistarono nuovo lustro e nuova dignità. Non serve, vero, che vi ricordi che il Palio, il nostro, è nato in suo onore nel 1659?

E fu, proprio per addurre l’acqua che serviva alla fabbrica della Collegiata di Provenzano che venne costruito un fontino, alimentato dall’acqua del bottino di Fonte Gaia. Il fontino venne chiuso nel 1879 insieme al vicolo (e dentro quel vicolo chiuso si trova ciò che resta della facciata della “Casa dei Miracoli” sulla quale era murata l’icona mariana che, sempre la tradizione, vuole che appartenesse ad una discendente di Santa Caterina) anche se la sua acqua, indispensabile al rione, venne dirottata in via delle Vergini, dove, l’anno successivo, venne costruita una nuova fonte, che esiste ancora oggi.

Un'ultima annotazione: la Collegiata di Santa Maria in Provenzano è sì nel territorio dell'Imperiale contrada della Giraffa, ma essendo la Chiesa del Palio è la Chiesa di tutte e diciassette le Consorelle e quindi, come si dice a Siena, “non fa Contrada”.

Ora molto altro potrei scrivere perché, come diceva Anna Comnena dalla quale sono partita: per raccontare gli eventi, bisogna utilizzare tutti i fili, anche i più apparentemente insignificanti, dei quali è intrecciato il complesso tessuto della storia.

E se vi chiedete cosa c’entro io a scrivere della Giraffa vi rispondo che queste strade sono le mie strade. Sono luoghi che amo. Sono le persone che mi hanno accolta, al di là e oltre i colori contradaioli. Sono le strade nelle quali vivo. E, per dirla con Gabriel Garcìa Marquez: l’amore non presuppone monopoli, perché il cuore "ha più stanze di un bordello". Appunto.

Maura Martellucci

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 7 Giugno 2020 dedicato alla Imperiale Contrada della Giraffa

domenica 26 maggio 2024

I Numeri Unici del Drago - di Massimo Biliorsi



Il primo Numero Unico della Contrada del Drago è quello del Palio della Pace. Non poteva essere altrimenti: la Contrada negli anni trenta è una ristretta, seppur ben organizzata, cerchia di persone con personaggi come Mattei e Nozzoli, capaci di tenere assieme sede e società ma con problemi numerici che si riflettono in settori allora molto laterali come l’editoria. La rinascita del dopoguerra è una rinascita sostanziale, ed ecco un Numero Unico agile e semplice, con quella copertina un po’ liberty, con un drago che fa marameo e collaborazioni illustri come quella di Mario Verdone. Lo sappiamo che l’evoluzione di questa pubblicazione fu ovunque lenta e meditata fino alla fine degli anni sessanta del novecento.
Il Drago si toglie la cuffia nell’agosto del 1962 e una nuova generazione, giovane e un po’ irriverente, guida la Contrada di via del Paradiso. E questo non poteva non riflettersi sulle copertine dei quattro Numeri Unici, quasi una pubblicazione annuale, che testimoniano i successi del 1962, 1963, 1964 e 1966. Sono, nell’ordine, “Grancarriera”, “Piazza pulita”, “Il filo di Arianna” e “Dragomania”. Si assomigliano per grafica, formato e contenuti. Qui appaiono figure a noi molto care: i disegni e le copertine di Emilio Giannelli, i testi sagaci e pungenti di Andrea Muzzi e Enrico Giannelli. 
Passano vent’anni e finalmente il Drago vince: c’è molto da raccontare in “Beati gli ultimi”, titolo di Paolo Corbini, con un’altra generazione che si racconta in un successo insperato e condito dai disegni del già mitico Giannelli, Pizzichini e Pollai. Il Numero Unico è realizzato a Firenze dall’editore dragaiolo Carlo Balocchi.
Passano tre anni ed ecco “Ippomanzia”, titolo ideato dal sottoscritto, dove il pretesto del filo conduttore è quel ferro magico che Benito ha potuto riavere prima della corsa.
Si arriva al 1992, ed ecco il Numero Unico forse più coerente e capace di interpretare una bella stagione. E’ in due volumi, con un cofanetto, e si intitola “Ricamato”, titolo di Enrico Giannelli e copertina del fratello, visto che il drappellone era stato così realizzato.
L’anno dopo siamo di nuovo al lavoro e c’è modo di sbizzarrire la fantasia e soprattutto l’ironia. Si tratta di “035 United Colors of Dragon”, ancora mia l’idea, e tutta la capitaneria vittoriosa è ritratta nuda come la celebre pubblicità della Benetton. C’è un inserto satirico Cuore che è restato davvero nel cuore di chi lo realizzò.
Eccoci al 2001: drappellone realizzato da chi disegnava i manifesti per il cinema, Silvano Campeggi, e quindi tutta la festa prende l’impronta e la vocazione del grande schermo. Non per niente si chiama “Nuovo Cinema Paradiso”, strada dragaiola e film vanno d’accordo, ed è racchiuso proprio nella scatola a forma di pizza cinematografica. Cambiano le generazioni, qualcuno di noi va a divertirsi con la commissione regia della cena ed ecco Susanna Guarino che guida un gruppo di giovanissimi per “D’Oppio”, due volumi che consacrano un grande cavallo e una dirigenza vittoriosa all’esordio. Ed infine “Favoloso”, una festa e una pubblicazione che ripercorrere epiche vicende, con un altro gruppo di giovani guidati stavolta da Giovanni Molteni, carta anticata per una storia nuovissima, con una particolare sottolineatura al fatto che, accaduto soltanto alla Torre, un proprio contradaiolo avesse disegnato il cencio portato a casa. Un viaggio lungo quasi un secolo, un viaggio editoriale che segna il passaggio dei tempi, delle mode ma sempre con una volontà e un entusiasmo che, nonostante l’arrivo di nuovi mezzi di comunicazione, segna la costante e bella presenza di un cartaceo che sprigiona sempre ricchezza e nostalgia. 
Per questo immortale. 

Massimo Biliorsi


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 1 Giugno 2020 dedicato alla Contrada del Drago

domenica 19 maggio 2024

Rubrica: Il Palio al Cinema - Introduzione e "Palio" di Alessandro Blasetti

Introduzione
 
Il Palio di Siena ha assistito attivamente, nel passaggio dal XIX al XX secolo, al mutare della società contemporanea, così aveva fatto con le epoche precedenti. In questa deriva storica, però ha avuto modo di “conoscere” e farsi “raccontare” dai nuovi media, in particolare dai mezzi radiofonici e televisivi; ma in questa rubrica, alla quale ci dedicheremo, la Festa è entrata a far parte anche e soprattutto della storia del cinema italiano e internazionale.
In questo senso ci “avventureremo” lungo una linea storica piuttosto breve, ma intensa, analizzando alcuni dei frame che riguarderanno dei contributi fondamentali. Nelle prossime settimane concentreremo il nostro interesse verso pellicole storiche, che non si sono limitate al racconto del Palio dell’epoca, ma ci hanno mostrato, per quanto fosse possibile, la storia di Siena e d’Italia: quella del Ventennio, quella del cosiddetto “boom economico” e quella del nostro tempo.
Insomma, quella del Palio è divenuta una storia non soltanto orale, scritta o dipinta, ma ha sentito il bisogno e una forte necessità, di essere rappresentata anche sul grande schermo. In effetti, il cinematografo è sorto con quella idea “romantica” e in qualche modo “futurista” del movimento. E se escludiamo, per qualche istante, le immagini della vita contradaiola e quelle del Corteo Storico, l’essenza della velocità e delle falcate dei cavalli sull’anello di tufo risiede in quel desiderio umano, quindi antropologico, che è poi diventato realtà: filmare l’azione, la velocità e fermarla su un supporto per sempre, per poterla rivivere continuamente di generazione in generazione. Ed è questo che ha condotto, in alcuni casi, positivamente all’unione di Palio e multimedialità. Ma quello che ha interessato il cinema successivo, e non quello delle origini, è la rappresentazione del Palio nel suo “rito”, che non è soltanto una corsa di cavalli, ma un “giuoco” serio che, nel conflitto tra le Contrade, ritrova la vera essenza dell’orgoglio cittadino, dell’appartenenza e quindi di un’identità immutabile e sempre nuova. Nel prossimo intervento ci occuperemo di Palio (1932) del regista Alessandro Blasetti.

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 26 Aprile 2020 dedicato alla Contrada di Valdimontone



Palio 
di Alessandro Blasetti (1932) 
 
Come avevamo accennato nello scorso numero, stavolta ci occuperemo del film di Alessandro Blasetti, “Palio” (1932). Avevamo fatto cenno anche di come il Palio, nel passaggio di secolo, si sia “adattato” ai nuovi media: prima la radio, poi il cinema e, per finire, la televisione. Ci eravamo focalizzati, inoltre, su di un aspetto molto interessante, del quale gli amanti del cinema non dovranno mai scordarsi: il sogno “eterno” di fissare per sempre un’azione, perpetuarla nel tempo e soprattutto custodirla. Un impegno non da poco per quanto riguarda, in maniera particolare, il repertorio e l’archivio multimediale della Festa arricchito dall’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione che hanno iniziato a cambiarci la vita. D’altra parte viviamo in quell’epoca, fortunata o meno, non sta a noi sentenziare questo, che Walter Benjamin aveva definito, nel 1936, “della sua riproducibilità tecnica”.
Del film di Blasetti, “Palio”, conosciamo molto bene la trama e non è questa la sede per rammentarla ai lettori e a coloro che, per un motivo o per l’altro, non hanno ancora visto la pellicola (chi ama il cinema, di conseguenza conosce le sue regole: mai fare “spolier”!). E non sarà nostro compito o intenzione, qui, farne un’analisi filmica più precisa. Per questo, dopo la visione del film, invitiamo i lettori interessati ad approfondire il tema attraverso due importanti saggi scritti dalla studiosa Paola Micheli: “Un Palio per il cinematografo”, Il Leccio, Siena, 1997; “Il cinema di Blasetti, parlò così. Un’analisi linguistica dei film (1929-1942)”, Bulzoni Editore, Roma, 1990. 


Nella storia del cinema, e qui intendiamo la finzione cinematografica, il Palio è stato dapprima protagonista assoluto, per poi divenire, in alcuni casi, “comparsa episodica” (oggi gli studiosi la definiscono “cinematografia di promozione turistica”). Una “comparsa” importante, intendiamoci, ma che con la trama principale ha poco collegamento, se andiamo a ridurre il film all’osso.
Ci scusiamo per il gioco di parole, ma “Palio” è un film sul Palio, a differenza, per citarne uno, di “Quantum of Solace” (2008) di Marc Forster, per i motivi sopra citati. Il film del regista italiano, Blasetti, ha avuto l’onore di “nascere” dal soggetto di un senese noto al mondo dello spettacolo come Luigi Bonelli. È il ritratto di una Siena in bianco e nero, che dà vita a una sorta di “realismo” della finzione e, nel contempo, ci mostra una città che non c’è più, almeno sotto alcuni aspetti (interessante, per esempio, è la sequenza che riguarda i lampioni che, al tempo, circondavano, insieme ai colonnini, Piazza del Campo). “Fiction” e “realtà” hanno uno strano rapporto con lo spettatore e riguardo questo sarebbe interessante confrontarci, ma non è questo il luogo, con gli studi condotti da Siegfried Kracauer. Gran parte delle sequenze di “Palio” furono girate in interni e la recitazione degli attori è più teatrale e poco cinematografica. Le sue origini si specchiano in quella tradizione del teatro italiano di stampo ottocentesco, e in questo caso ha dei “ritagli” anche comici, fornendo allo spettatore delle divertenti “gags”. Ma siamo nel 1932, in pieno Ventennio, e quello che vediamo nelle sequenze ci riporta alla mente qualche documentario o filmato dell’Istituto Luce sulla Festa che, particolarmente, era interessato e focalizzato a evidenziare l’importanza delle monture, delle bandiere, dei vessilli e delle gualdrappe. Un racconto “romantico” del Corteo Storico che mette in risalto gli alfieri, le chiarine, che intonano la Marcia del Palio, il Carroccio, quello del tempo, i fantini, i cavalli e altre componenti che marcano con insistenza la natura “antica” della tradizione senese.


Poi, verso la fine del film, dopo una lunga attesa, entrano i cavalli in Piazza, disputano una Carriera interminabile (5 giri), e viene azzardata anche una ripresa con “camera-car” in un breve segmento della Corsa. Altre inquadrature, invece, avvengono dalla Torre del Mangia. Un fatto curioso è che alcune riprese del Corteo Storico furono realizzate il 15 di agosto del 1931, prima della Prova Generale. Ciò che, per certi versi, accomuna la “fiction” di questo film a “La ragazza del Palio” (1957) di Luigi Zampa è proprio la sequenza della Carriera. Zampa, però, al contrario di Blasetti, ha fatto un uso eccessivo del “found footage” mischiando filmati di diversi Palii, prove e immagini relative alle batterie della Tratta. Ciò che fortemente ha caratterizzato la pellicola, prodotta dalla Cines, è la sua attenzione “linguistica” nei confronti dell’italiano e del dialetto “toscano”. La sequenza di apertura presenta delle didascalie, tipiche di un cinema muto, che non esiste ormai più, che servono tuttavia ad enfatizzare l’aspetto dell’”antico”, di un immaginario “medievale” o “rinascimentale”, comune allo spettatore. Oggetto di polemica fu invece il “parlato” degli attori che dialogavano fra loro non in senese ma in fiorentino: un errore imperdonabile.
 
Lorenzo Gonnelli

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme dell' 11 Maggio 2020 dedicato alla Nobile Contrada dell'Oca

 

domenica 12 maggio 2024

La Festa Titolare dell'Oca, e la processione per la Santa


La festa titolare della Nobile Contrada dell’Oca inizia quando abili operai ocaioli, con amore e qualche bercio, montano il fondale: un grande apparato ligneo esposto a fianco dell’Oratorio.
      
L’opera si presenta come un grande scenario architettonico dipinto, in alto le tre figure teologali, fedesperanza e carità, che si appoggiano ad una maestosa trabeazione, sorretta da quattro colonne corinzie.

Il progetto porta la firma di Agostino Fantastici, noto architetto fontebrandino; viene arricchito da una pittura centrale che rappresenta “il matrimonio mistico di santa Caterinarealizzato da Alessandro Maffei; sue probabilmente, anche le decorazioni ornamentali.

Il maestoso altare crea uno scenario meraviglioso, impreziosito dalle bandiere, dai braccialetti e dai canti che scaturiscono per l’accensione del Rione; per quattro giorni Fontebranda si anima, favorendo brindisi e canti che nascono spontanei, accompagnati dal suono dei tamburi, che proviene dalle fonti, punto di partenza di ogni Fontebrandino.


L'Altare - Foto di Pino Bonetto


L’omaggio ai defunti, l’iniziazione, i battesimi, ed il Mattutino, portano l’ocaiolo ad affrontare il giorno seguente, “IL GIRO”: classico saluto alle Consorelle ma impreziosito sul finale, con la processione in onore di Santa Caterina.  

Dopo il rientro da Piazza del Campo, ci si riunisce tutti a San Domenico dove, con devota disciplina, ci “mettiamo in formazione” per la processione:

I primi a partire sono i monturati, che una volta arrivati in fondosi dispongono ai lati della via, alzando la propria bandiera creando così’, una sorta di tunnel bianco rosso e verde, sotto il quale passano i dirigenti della Contrada e gli uomini che si dispongono ai lati dell’altare.      


Il "tunnel" di bandiere - Foto di Marco Francioli


A seguire le donne con in mano le candele, simbolo di luce e speranza, avanzano intonando l’inno di Santa Caterina “a gloria di Siena ed Italia”, con fierezza e commozione, ed esplodono in un pianto quando “all’imbocco” di via Santa Caterina, si ha la visione più bella che si possa avere: le bandiere che incorniciano la via, i braccialetti che la illuminano e rendono magica quella visione e che sembrano quasi fiaccole, a causa sicuramente degli occhi lucidi; dietro, in fondo, ma non perché meno importanti, i bambini: anche loro cantano l’inno e portano in mano, fieri e delle volte impacciati, il giglio, fiore di Santa Caterina; lo poggiano con profonda devozione alla base dell’altare e si dispongono lateralmente per far passare Lei, la Santa, un busto d’argento sbalzato opera di Giuseppe Coppini del 1807, che porta in sé, nella sua base, una reliquia di Caterina, un pezzetto di falange; preceduta e solennemente accompagnata da un tamburino e una coppia di alfieri, viene trasportata da quattro uomini dell’Oca, posta sopra all’altare e il Correttore da inizio alla Messa Solenne.

L’ocaiolo lo sa, quella non è una semplice messa ma il momento in cui la Contrada, diviene a tutti gli effetti FAMIGLIA: gli ocaioli si scambiano sguardi, molte volte pieni di lacrime per la forte emozione che stanno provando, percepita anche da chi ocaiolo non è, consapevoli di stare vivendo un momento particolare; gli sguardi lucidi confluiscono verso gli occhi della Santa, creando una sorta di filone tra gli ocaioli di ieri, di oggi e di domani, che ci fa capire di essere parte di una grande e splendida famiglia, quella di F
ontebranda.

Caterina Manganelli     


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme dell' 11 Maggio 2020 dedicato alla Nobile Contrada dell'Oca

domenica 28 aprile 2024

Quando il Montone cambiò Patrona e festa titolare

 

A Siena tutti sanno che il Montone è la prima fra le Contrade a celebrare la festa titolare, e per la città quella data segna l'inizio della “bella stagione” che culmina nello svolgimento dei due Palii.

Ma è poco noto che non sia sempre stato così; fino al 1909, infatti, la comparsa della Contrada di Valdimontone girava la prima domenica successiva al 15 di Agosto, ricorrenza della prima patrona: Maria Assunta in cielo.

Per capire i motivi del cambiamento, bisogna fare un passo indietro fino alla metà del 1700 quando, in seguito a screzi con la compagnia della SS.Trinità, l'oratorio di Contrada fu spostato nella vicina chiesa di S.Leonardo, al tempo inutilizzata e spoglia (nel 1978, comunque, l'oratorio della SS.Trinità è tornato a essere chiesa ufficiale della Contrada, mentre la sconsacrata chiesa di S.Leonardo è ora appendice dell'apparato museale).

chiesa di San Leonardo


Si presentò dunque la necessità di allestire un altare con l'immagine dell'Assunzione, e si chiese aiuto al nobile Fabio Bichi, canonico del Duomo di Siena nonché facoltoso protettore del Montone.

Il reverendo Bichi acconsentì, ma, per motivi solo a lui noti, diede ordine di far dipingere una tavola raffigurante la Beata Maria Vergine del Buon Consiglio e non l'Assunta.

Fu così che il 10 luglio 1757 detta immagine sacra venne esposta nella chiesa di S. Leonardo: il destino volle che il Montone trionfasse nel palio immediatamente successivo, quello del 16 agosto 1757!

Per ancora un secolo e mezzo, comunque, la Contrada continuò a celebrare la festa patronale a metà Agosto, pur riservando particolari festeggiamenti alla Madonna del Buon Consiglio nella sua ricorrenza di fine Aprile.

Solo nel 1909 fu deciso di celebrare compiutamente l'intero programma della festa titolare in onore della Santa Patrona la domenica immediatamente successiva al 26 di Aprile, e da quel momento il Montone è la Contrada che per prima nell'anno effettua il tradizionale giro di omaggio alle consorelle e alle autorità.


Mauro Massaro




Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 26 Aprile 2020 dedicato alla Contrada di Valdimontone

domenica 21 aprile 2024

Amaranto, un nome che fa rima con rimpianto - di Roberto Filiani

"A cavallo è er mejo de tutti, ma er Palio è n'antra cosa..."

Le eloquenti parole di Beppe Gentili, confermate da tanti altri fantini dell’epoca, sono la perfetta sintesi della carriera di Amaranto Urbani, probabilmente uno dei fantini più sfortunati della storia.

Arrivò a Siena da Cantalupo in Sabina e debuttò appena ventenne montando Wally per la Giraffa nel luglio 1932, lo chiamarono Boccaccia, per la sua bocca “a ranocchia”, ma per tutti restò sempre e semplicemente Amaranto.


foto ilpalio.org


Già dagli esordi Amaranto dimostrò ottime doti, in particolare in partenza.

Nel 1934 si legò, in un curioso connubio cromatico, con la Torre, ma quello fu un anno decisamente sfortunato: a luglio pur lottando nelle prime posizioni il Palio lo stravinse il Meloncino nella Civetta ed in Salicotto arrivò la poco ambita cuffia; ad agosto andò ancora peggio, nel famoso Palio del tradimento di Pietrino al Nicchio, l’Oca vinse, ancora col Meloncino, con Amaranto relegato in fondo al gruppo sull’anziana e malconcia Lina.

Assente nel 1935, l’anno seguente Amaranto riuscì a mettersi in particolare evidenza dando praticamente una svolta positiva alla sua carriera.

Il riferimento obbligato è al Palio dell’Impero, corso il 2 luglio 1936, partito primo, nella Chiocciola sull’esperta Melisenda, fu protagonista di due duelli accaniti prima al Casato dove fece cascare lo Sgonfio nella Pantera e poi con il super favorito Pietrino, nell'Oca con il mitico Folco, annientato a nerbate e controllato fino allo scoppio del mortaretto che vide trionfare la Giraffa col quasi ignaro Bovino aggrappato a Ruello.

Pur sacrificato in un ruolo di difesa Amaranto aveva disputato un gran Palio chiuso con un secondo posto bissato nell'agosto successivo nel Nicchio con Folco quando, dopo una brillante partenza, il nostro protagonista non riuscì a recuperare su Tripolino nel Drago con Aquilino.

Il Palio del luglio 1939, disputato dopo tre anni di assenza, confermò tutte le caratteristiche di Amaranto: nel Nicchio su Ruello, due giri da protagonista prima di perdersi a vantaggio di Pietrino e Tripoli che si contesero la vittoria.

Probabilmente quest’altra sconfitta, con uno dei migliori cavalli del momento, accentuò la sofferenza di Amaranto, vittima da un’oscura e crescente paura di vincere.

Alla ripresa del Palio dopo la guerra Amaranto si legò alla Tartuca, in un modo che merita di essere raccontato.

In un’Italia ancora stravolta dalla guerra la notizia della ripresa del Palio arrivò anche ad Amaranto che, nel frattempo, pur impegnato in altri mestieri, non aveva abbandonato la sua passione.

A luglio i quasi impossibili collegamenti post-bellici avevano impedito ad Amaranto di raggiungere Siena e per il successivo Palio d’agosto si profilava una nuova assenza dal Campo.

Invece a Siena non era stato dimenticato e qualcuno pensava a proprio a lui come mossa a sorpresa per vincere il Palio.

La Tartuca, con la promettente Giuliana, dopo esser riuscita a contattare telefonicamente Amaranto organizzò un viaggio, davvero tribolato ed avventuroso, per riportare il fantino laziale a Siena e tenerlo nascosto fino al momento opportuno che arrivò alla quarta prova.

L’accoppiata con la svelta Giuliana faceva davvero ben sperare la Tartuca ma, nella notte precedente alla carriera, la cavalla accusò dei problemi fisici che preclusero di fatto la vittoria nonostante Amaranto fosse riuscito, ancora una volta a partir primo ed a rimanere in testa per tutto il primo giro.

Appena scoppiato il mortaretto, che sancì il trionfo della Civetta con l’Arzilli su Folco, tutto il popolo delle contrade era già sul tufo a chiedere la disputa di un altro Palio, un Palio davvero straordinario, il celeberrimo Palio della Pace che vedrà, suo malgrado, attore non protagonista proprio il nostro Amaranto.

Come è ben noto quello doveva essere il Palio del Bruco, a tutti i costi, in tutti i modi, con l’accoppiata Arzilli-Mughetto favorita anche e soprattutto da una fittissima rete di accordi e trame che avrebbero riempito anche le tasche, particolarmente sguarnite dopo la guerra, di tutti i fantini.

Amaranto venne confermato sulla scattante Elis e da subito si comprese che, nonostante le varie pressioni, la Tartuca avrebbe tirato a vincere non allineandosi al volere generale.

Amaranto, quindi, andava fermato in modo diverso e ci pensò il Mossiere Lorenzo Pini ad assolvere al ruolo: per ben due volte la Tartuca scappò nettamente prima col Bruco fermo al canape, in entrambe le occasioni il Mossiere annullò la mossa scatenando l'ira dei tartuchini che, capeggiati da un giovanissimo Silvio Gigli, ritirarono dalla carriera il proprio cavallo, fatto senza precedenti nella storia del "Palio moderno".

Inutili furono le resistenze di Amaranto che venne letteralmente trascinato via dalla piazza, eroe, suo malgrado, di quella che venne definita dal capitano tartuchino Torquato Rogani “una vittoria invisibile e senza teca”.

Imbrigliato da episodi di portata storica eccezionale Amaranto aggiungeva un nuovo rimpianto alla sua lunga lista nera, nulla di paragonabile a quello che sarebbe accaduto nel Palio successivo.

La tratta favorì l'Oca che decise di affidare il grande Folco ad Amaranto che dalla mossa, nonostante la vicinanza della Torre, uscì con un vantaggio notevole, con il Montone, maggiore antagonista, completamente fermo tra i canapi, all'improvviso, però, con un ritardo clamoroso e tra lo stupore generale, la corsa dell'Oca venne fermata dal ripetuto scoppio del mortaretto.

Ancora il Mossiere Pini ed il mortalettaio Ragno, appassionato montanaiolo, avevano fermato la volata di Amaranto verso la tanto desiderata gloria.

Rientrato nell'Entrone affranto ed incredulo Amaranto si trovò solo di fronte al suo dramma e tornò tra i canapi molto provato, riuscì comunque di nuovo a partire primo ma già a San Martino si concretizzò la rimonta di Ganascia che col nerbo difese per tre giri la sua posizione infliggendo al fantino dell'Oca un'umiliazione fin troppo pesante.

Per il Palio successivo Amaranto venne confermato dall'Oca su Salomè, anche se la fiducia nei suoi confronti iniziava a vacillare tanto che nelle prove si alternarono con lui anche i vecchi Pirulino e Porcino.

Con grande determinazione Amaranto a San Martino riuscì a prendere la testa ma la mantenne per un solo giro, battuto stavolta dall’emergente Beppe Gentili.

A chiudere e confermare lo sfortunatissimo connubio con l'Oca lo straordinario del 18 maggio 1947 terminato con la rovinosa e drammatica caduta al primo San Martino che costò la vita al velocissimo purosangue Cesarino che aveva appena preso la testa dopo una partenza a razzo dalla posizione di rincorsa.

Il secondo posto nel luglio 1947, nella Tartuca sul poco considerato Gioioso, reso pimpante dal vecchio Bubbolo tutto fare della stalla, è solo l’ennesimo amaro dato statistico.

Nell’agosto successivo Amaranto fu confermato nella Tartuca sulla quotata Salomè ma sul fantino ormai iniziarono a serpeggiare ulteriori dubbi e la fiducia nei suoi confronti veniva meno, tanto che la monta fu in bilico fino all’ultimo.

Il Palio lo vinse la Torre, Amaranto pur partendo tra gli ultimi arrivò terzo ma subì lo stesso una dura contestazione a fine corsa che lo amareggiò a tal punto da fargli promettere di non tornare più a correre nella Tartuca.


Ormai consumato da tante delusioni ed ossessionato dal miraggio della vittoria Amaranto corse due Palii anonimi nel 1948 per poi rilanciarsi, a sorpresa, nel luglio 1949 disputando una grande carriera nel Bruco con lo sconosciuto Mistero battuto solo dalla giornata di grazia del giovane Bazza nella Chiocciola.

La tratta del Palio d'agosto assegnò Mistero alla Torre che, dopo quindici anni e dopo la militanza in Fontebranda, scelse proprio Amaranto preparando il Palio in tutti i dettagli.

Forse per la prima volta, nella sua ormai lunga carriera, Amaranto si presentò tra i canapi con tanti soldi da spendere ed il conseguente appoggio di gran parte degli altri fantini.

Il lavoro della dirigenza torraiola sembrò poter sortire gli effetti sperati: Amaranto, risalito indisturbato dal quinto posto fino allo steccato, riuscì a partire nettamente primo mentre la Civetta, principale antagonista con l'Arzilli sulla velocissima Popa, subiva prima l’ostacolo tra i canapi del Terribile nella Selva e poi veniva frenata dalle nerbate di Pietrino nell’Istrice.

Ma anche stavolta qualcosa andò di traverso: l'Arzilli, con il quale Amaranto aveva avuto qualche dissidio di natura economica, riuscì a divincolarsi al secondo Casato dal duro ostacolo ed in poche falcate raggiunse e staccò nettamente la Torre.

Una possibile vittoria storica si trasformò in un pianto disperato...

La malasorte non risparmiò altri duri colpi per Amaranto anche nei suoi ultimi incolori spiccioli di carriera, i clamorosi fatti dell’agosto 1952 sono emblematici in tal senso.

Il veloce Miramare faceva ben sperare Amaranto ed il Bruco, afflitto da un digiuno trentennale, la posizione allo steccato ed i tanti soldi a disposizione rendevano la situazione ancora più favorevole.

Ma, all’improvviso, con la rincorsa ancora fuori dai canapi, una banale forzatura mandò sul tufo il povero Amaranto, riportato a braccia nell’Entrone e poi sostituito, in barba al regolamento, da Falchetto “prelevato” dalla Chiocciola per evitare l’invasione di pista dei brucaioli.

Ormai vittima di critiche, spesso ingenerose e fin troppo pungenti, Amaranto corse il suo ultimo Palio nell’agosto 1953 per la Civetta, lasciando in molti contradaioli un ricordo di struggente rammarico.

Morì a soli quarantaquattro anni sognando di vincere un Palio, il suo più grande rimpianto di fantino “onesto”.


Roberto Filiani

 

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