giovedì 21 marzo 2024
L’Oratorio di San Giovannino della Staffa
sabato 2 marzo 2024
L'inganno del tempo: gallo nero e gallo bianco.
Bibliografia:
“La storia del Chianti”, Giovanni Righi Parenti- Edizioni Periccioli- Siena
domenica 11 febbraio 2024
Da Marescotti a Chigi: Storia di un palazzo e di chi lo ha vissuto
“Ond’io a lui: Lo strazio e il grande scempio,
Che fece l’Arbia colorata in rosso,”
Così il Sommo Poeta racconta la battaglia di Montaperti.
Dall’avvenimento narrato erano passati 61
anni, ma l’eco di quell’epica battaglia risuonava ancora forte nelle orecchie.
Dante era venuto a conoscenza dei fatti dai racconti di chi c’era, quasi come
oggi ascoltiamo le storie dei vecchi Palii nelle serate estive. Così come oggi
ognuno racconta la sua versione del Palio, all’epoca accadeva uguale anche
riguardo una guerra, creando versioni fantasiose e talvolta leggendarie.
Rispetto la battaglia di Montaperti di storie non del tutto veritiere ne
sorsero tantissime. Infatti vive ancora la leggenda di Cerreto Ceccolini, il tamburino che
avrebbe fatto la radiocronaca dello scontro, appollaiato sulla torre
Marescotti.
Come ho detto
questa è una leggenda, non abbiamo la sicurezza che Ceccolini possa aver fatto
questa cronaca, anche a causa della grande distanza; tuttavia la torre esiste
ancora.
Torre Marescotti
appartiene alla cellula embrionale di quello, che nel 1877, diverrà Palazzo
Chigi Saracini.
Marescotti
Come
tutte le famiglie potenti, anche i Marescotti si danno un’origine importante
facendo risalire la loro casata a Marius
Scotus, fantomatico militare scozzese dell’VIII secolo. La leggenda
racconta che quando nel 773 d.C. Carlo Magno scese in Italia contro i
Longobardi, rei di non aver rispettato il limite del territorio papale. Mario Scoto, che era stato incaricato da suo fratello
Guglielmo Conte di Douglas, di comandare il suo esercito al fianco di Carlo
Magno, trovò un passaggio tra le montagne e attaccò di sorpresa i Longobardi. Lasciate le armi alla fine del secolo, si
sposò con una nobildonna italiana e
ricevette l’incarico di fare da scorta al Papa. Nell’800 ricevette
l’investitura del contado di Bagnacavallo in Romagna. La famiglia Marescotti conserva tutt’oggi un ritratto d'uomo
d'arme che porta la seguente iscrizione in latino “Marius de Calveis, Scotus, Carl
Mag M Dux Familiam Marescotti Fundavit ANN D. DCCC.”
Di fatto la prima
menzione attendibile di un appartenente alla dinastia è un Mariscotto, console
del comune di Bologna e poi capitano generale
nel 1179 e un Raniero Marescotti, nominato Cardinale da Papa Lucio II
nel 1144.
Il ramo Senese si
sarebbe formato con Guglielmo Marescotti, podestà di Siena nel 1232. Tuttavia
la loro presenza nel senese, è documentata già nel XII secolo, come feudatari
della maremma.
Il primo palazzo
Scendendo Via di Galgaria (antico nome di Via di Città,
dovuto alla presenza dei “Galgari”, cioè cuoiai e calzolai) si apre sulla
destra il vicolo di Tone. Questo passaggio, che secondo Lusini si
riconnetterebbe all’antica strada romana di Tascheto (oggi Via dei Percennesi), prende il nome da
Guido Marescotto dei Marescotti. Guido o Guittone (da qui il toponimo) sarebbe
colui che iniziò la costruzione del Palazzo, partendo proprio dalla torre di
cui parlavamo precedentemente.
Siamo alla metà del 1200 circa e la posizione
prima e la leggenda poi, pongono l’accento sull’influenza che aveva questa
famiglia nel panorama politico senese.
Passaggio di consegne
Nel corso dei tre
secoli durante i quali il palazzo rimase di proprietà dei Marescotti, vennero
effettuati molti ampliamenti assorbendo le costruzioni adiacenti.
La famiglia rimase
in possesso dell’edificio fino al XVI secolo, quando venne acquistato dai
Piccolomini del Mandolo: altra
importantissima casata senese a cui dobbiamo l’attuale aspetto rinascimentale,
tramite le decorazioni raffaellesche del loggiato esterno ed il fregio
istoriato rappresentante le storie di Pio II.
Piccolomini
Questa famiglia è senza dubbio una delle più importanti della storia della Città. Anche i Piccolomini, come già abbiamo detto per i Marescotti, fanno risalire l’inizio della stirpe a tempi molto remoti.
Francesco Maria
Piccolomini vescovo di Pienza nel
Il bisogno di far
risalire le origini a fatti o persone di primo piano storico era necessario,
quanto lo sono oggi le referenze per trovare lavoro. Esse servivano appunto da
garanzia e vanto, nei confronti delle altre famiglie nobili della zona, per cui
talvolta è facile imbattersi in storie più che fantasiose.
Piccolomini del Mandolo
Questo ramo della casata Piccolomini ha origine nel corso del XIII secolo, con Biagio di Carlo figlio di Carlo di Gabriello di Rustichino. I componenti furono molto presenti nelle cronache senesi per il loro altissimo livello culturale e sociale che permise l’acquisto del palazzo Marescotti e l’adeguamento in chiave rinascimentale di cui abbiamo parlato. La Famiglia Piccolomini del Mandolo, dopo aver annoverato svariati Vescovi e Arcivescovi, anche molto influenti presso il papato, si estinse nel corso del XVII secolo, quando i figli maschi di Guglielmo e Giuditta Amerighi morirono senza dare discendenza.
Tracce dei Mandoli
I Piccolomini dal Mandolo sono, come si intuisce, l’unione matrimoniale tra i rampolli delle due casate. Purtroppo, mentre dei Piccolomini abbiamo moltissime documentazioni anche relativamente antiche, dei Mandoli disponiamo di pochissime attestazioni, tra le quali gli stemmi raffigurati su alcune tavolette di Biccherna, come ad esempio la numero 82 (1607-1610) e la numero 60 (1555). Ad oggi, una parte importante della famiglia Mandoli risiede a Lucca, da dove sembra sia nata la dinastia, ed è grazie ad una loro discendente, Rita Camilla Mandoli Dallan e alla sua straordinaria ricerca, che mi è stato possibile ricostruire questa parte della storia del Palazzo Chigi (ancora Piccolomini del Mandolo).
Dai Saracini alla Chigiana
Dopo gli ammodernamenti rinascimentali
apportati dalla famiglia Piccolomini del Mandolo, l’immobile passa nelle mani
della famiglia Saracini – Lucherini (Lucarini).
L’unione delle due famiglie, Saracini e
Lucherini, si ha nel 1668 quando Galgano Saracini venne adottato dalla famiglia
Lucarini, unendo i due stemmi (effige di un moro sovrastato da un’aquila) e
assumendone il cognome.
A
partire dal 1770 avviene un’ulteriore
ampliamento della facciata, aggiungendo una fila di trifore fino a giungere
al Vicolo di Tone; un ricongiungimento, se si vuole, con la famiglia che aveva dato il via al
Palazzo.
Nel 1877, per volere testamentario di
Alessandro Saracini Lucherini, l’edificio viene ceduto all’unico erede, il
nipote Fabio Chigi che assunse il nome di Fabio Chigi Saracini (di fatto non vi
è menzione del nome Lucherini, che sembra sparire in questo passaggio, dalla
storia della casata), che a sua volta lo donò al nipote Guido Chigi Saracini.
L’appartamento al primo piano venne adattato nel 1922, da Arturo Viligiardi
(1869-1936) inserendovi anche un salone da concerti in stile settecentesco. La
famiglia Chigi Saracini vi abiterà fino al 1965, riservando parte del palazzo
all’Accademia Musicale Chigiana, istituita dal Conte Guido Chigi Saracini nel
1932, divenuta Fondazione Chigiana nel 1958.
Il nostro percorso attorno alla storia del Palazzo Chigi Saracini Lucherini, ci ha portato a scoprire persone e istantanee di storia senese, che corrono il rischio di andare perdute.
Tramite questo viaggio, abbiamo riconsegnato l’onore alla famiglia Marescotti e al ramo Piccolomini del Mandolo. Queste famiglie sono tutt’oggi parte fondamentale della nostra storia e meritano un posto d’onore accanto alle casate più “fortunate” del panorama storico senese.
Michele
Vannucchi
Fonti usate
Sito dell’Accademia
Chigiana; sito della SIAS – Sistema Informativo degli Archivi di Stato; sito
della famiglia Mandoli; sito dell’archivio di Firenze; Sito Araldica Vaticana,
archivio Marescotti-Ruspoli.
Tra gli storici da
cui ho preso spunto cito Maura Martellucci e Roberto Cresti.
Bibliografia
Spicilegium
theologicum seu difficiliores controuersiæ selectæ ..., Volume 3.
Toscana. Guida
d'Italia
(Guida rossa), Touring Club Italiano, Milano 2003
Archivio
storico italiano di G.P. Vieusseux Tomo XXI anno 1875
Roberta Mucciarelli
- L'archivio Piccolomini: Alle origini di una famiglia magnatizia: discendenza
fantastiche e architetture nobilitanti, (edito in “Bullettino Senese di Storia
Patria”, CIV, 1997, pp. 357–376)
Fascicolo
6436 Archivio di Stato di Firenze
ARTICOLO TRATTO DALLA RUBRICA: "STORIE DAI TERZI: TERZO DI CITTà" DEL NOTIZIARIO DEL FORUMME DEL 27 MARZO 2021
mercoledì 24 gennaio 2024
Maria Pia, il senso dell'appartenenza
Quando
tentiamo di spiegare a qualche conoscente non senese cosa significhi realmente
l’appartenenza contradaiola troviamo difficoltà nell’esprimere un concetto che
per noi è così fortemente radicato e significativo, parte integrante del nostro
modo di essere e di agire, ma che per chi non ha avuto la fortuna di nascere a
Siena (o averci comunque un forte legame) è un qualcosa di completamente
estraneo ed astratto.
E’
come tentare di spiegare l’amore a chi l’amore non l’ha mai provato: possiamo
parlare di farfalle nello stomaco, di sensazioni e figure poetiche, ma il senso
profondo l’altra persona non potrà mai assorbirlo fino in fondo fino a quando
l’amore non lo proverà sulla sua pelle.
Maria
Pia nella sua vita ha sintetizzato col suo modo di essere il significato
dell’appartenenza contradaiola, o meglio di come questa con la sua portata
riesca a entrarti nelle vene pur non vivendola direttamente e quotidianamente,
pur vivendo la propria vita a 200km di distanza e pur non avendo mai
frequentato in maniera attiva la Contrada.
Maria
Pia non ha mai vissuto a Siena, è nata nel 1956 e all’epoca i suoi genitori,
senesi DOC, lei del Nicchio e lui della Tartuca ed entrambi classe 1924, si
erano già trasferiti per questioni lavorative in Versilia. I genitori
nonostante questo hanno deciso di partorirla a Siena donandole il privilegio di
poter avere l’I726 sul codice fiscale e trasmettendole fin dalla nascita tutto
l’amore e la passione per la città e per i colori della Tartuca, la Contrada
paterna dove la famiglia aveva la casa in Via Castelvecchio.
Maria
Pia è cresciuta vivendo a distanza e nutrendosi di questo amore incondizionato,
in 67 anni di vita non ha mai mancato una Carriera o una festa Titolare, non ha
mai mancato una cena della Prova Generale, non è mai mancata a nessuno dei
festeggiamenti per le 9 vittorie che ha avuto il privilegio di vivere. Quando
ha potuto ha frequentato la Contrada, partecipando ai cenini e relazionandosi
con chi in Contrada ha avuto l’occasione di conoscerla e stringere con lei un
legame: sempre con discrezione e modestia, senza mai voler passare avanti a
nessuno, consapevole sempre di quello che era il suo posto e senza manie di
protagonismo.
Lontano
da Siena ha coltivato questo suo senso di appartenenza trasmettendolo agli
amici di una vita e ai propri figli, educandoli alla Contrada e ai suoi valori
fin dalla loro nascita. A scuola, dove insegnava, tutti ormai conoscevano
questa sua caratteristica al punto che gli studenti, quando volevano evitare
una interrogazione, provavano a chiederle di raccontare qualcosa su Siena e sul
Palio sapendo che lei a quel punto si sarebbe persa nell’ardore di quella sua
passione: lei conosceva il trucco ma a volte ugualmente fingeva di caderci
perché il desiderio di poter raccontarsi in quella veste superava qualsiasi
altra cosa.
Il
suo amore era viscerale, parte integrante del suo essere, inutile dire che casa
sua era un santuario di tartarughe e riferimenti a Siena, che il suo
abbigliamento era sempre in tonalità d’oro e d’azzurro e che i suoi occhi
splendevano quando poteva raccontare cos’era Siena e il Palio.
Un
modo di essere e di vivere il suo essere contradaiola che i senesi conoscono e
capiscono bene e che accumuna tutti quanti, ma che di certo non è così scontato
in una donna che quel senso di Contrada e di comunione ha potuto viverlo ed
esprimerlo relativamente poco a causa della distanza a cui era costretta; una
vita vissuta lontano ma sempre con quei due colori ad accompagnarla, una vita
che fa riflettere su quanto sia forte e profondo il senso di appartenenza che
solo a Siena una Contrada riesce a trasmettere ai suoi figli, vicini e lontani.
Maria Pia se n’è andata il 24 Novembre dopo un anno difficile, sofferto: dal 21 Agosto non è più tornata a casa passando gli ultimi 3 mesi in ospedale ma nonostante tutte le difficoltà che stava affrontando i giorni del Palio li ha voluti passare a Siena e il 15 sera come sempre era a cena in Sant’Agostino, il suo luogo del cuore, l’unico dove si sentiva a casa.
Il
suo desiderio era di essere riportata a Siena, e così è stato, è stata portata
al Laterino e ad accompagnarla nel suo ultimo viaggio c’erano Don Floriano, una
bandiera della Tartuca e l’inno della Contrada. Con sè, nel suo ultimo letto,
ha portato il fazzoletto della Tartuca, lo stesso fazzoletto che ha stretto a
sè in questi ultimi mesi di ospedale, la madonnina del Voto e due braccialetti,
uno con perle gialle e turchine, e l’altro con sopra una tartaruga. Una
tartaruga impressa anche sulla pelle oltre che nel cuore nell’unico tatuaggio
che avesse mai desiderato farsi.
Ciao
Maria Pia, ciao madre, grazie per essere stata la persona meravigliosa che eri
e grazie per averci trasmesso anche questo senso profondo di appartenenza,
senso di cui a tuo modo sei stata simbolo per tutta la vita.
Simone e Elena Pasquini
Articolo pubblicato sul numero di Dicembre2023 di Murella Cronache
sabato 6 gennaio 2024
White Christmas
In Italia questa visione del Natale arrivò dopo la guerra. Da noi la percezione della Festa era legata alla ritualità cristiana, soprattutto francescana. Fu, infatti, San Francesco ad “inventare” il Natale come lo abbiamo vissuto e percepito, finché il consumismo non ci ha sedotto definitivamente. La canzone di Natale più amata dagli italiani è sempre stata “Tu scendi dalle stelle”, composta da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. La Festa era prevalentemente cristiana, completamente scevra dalla nevrosi consumistica, i regali non esistevano, finite le feste la befana riempiva la calza ai più piccoli ed era facile trovarci noci, mandarini e carta di giornale appallottolata insieme alle caramelle.
Nel secondo dopoguerra hanno coabitato nelle nostre case il Natale cristiano e quello sincretista-consumista, il primo rappresentato dal presepe, il secondo dall’albero, il primo con canti religiosi, il secondo con canti laici. Entrambi belli fino allo struggimento sentimentale.
Alla Messa ci si andava perché ci si credeva davvero, quella della Notte di Natale era una celebrazione diversa da quella delle domeniche ordinarie, perché alla Messa ci si andava tutte le domeniche che Dio metteva in terra. Poi, con il tempo, con il disincanto, con la perdita del senso religioso, con il ’68 e la contestazione, dopo il Concilio Vaticano secondo, moltissimi hanno continuato a frequentare la Messa soltanto la notte di Natale per tradizione (qualcuno si è avventurato anche a quella di Pasqua), senza sapere che la Messa (anche quella di Natale) è la commemorazione della Pasqua. Infine, negli ultimi anni, alla Messa ci andavano soltanto i pochi che ancora la frequentano durante tutto l’anno. Quest’anno, invece, è presa la fregola a tanti di volerci ritornare per forza. Mica per l’Eucarestia, per carità, per quella sono necessari alcuni presupposti che mancano totalmente in persone che vorrebbero vivere un Sacramento per sottolineare un’ideologia pseudo politica.
Per concludere questa mia inutile polemica natalizia, che ben si inserisce nelle migliori tradizioni del pranzo di Natale, quando c’è sempre un parente che, dopo aver ecceduto con il vino, si abbandona a sterili polemiche sui più svariati argomenti, me la voglio prendere con lo shopping compulsivo natalizio. Ben venga il flusso di denaro, o di moneta elettronica, ben vengano gli acquisti esagerati, io per primo adoro il superfluo e voglio che l’economia possa riprendere. Sono il primo che adora il denaro e tutto quello che con il denaro mi illudo di poter comprare. Ma il rito dello shopping deve essere accompagnato da un sottofondo di musica da intrattenimento, note e parole che facciano parte del music-business internazionale, come White Christmas ci ha insegnato. Se dagli altoparlanti vengono diffusi gli orgasmi di un film porno, come è successo nei giorni passati a Vieste, o peggio ancora dovessero essere diffusi inni sacri, voi mi capite, non si rende il giusto servizio al demone consumista, gli inni sacri non fanno assolutamente parte della ricetta del frullato natalizio. Allo stesso modo si addobbino le strade e le vetrine con i colori istituzionali della festa commerciale, senza andare a cercare simboli che non appartengono al Natale. Le cose sacre si lascino alle occasioni adeguate. E chi non lo capisce è lo stesso, che prima di Pasqua, confonde una parte anatomica con il rito religioso delle quarant’ore.
ARTICOLO TRATTO DAL NOTIZIARIO DEL FORUMME DEL 25 DICEMBRE 2020
sabato 30 dicembre 2023
La Torre... che Mangia! - Il Panforte d'Agosto
Come diceva da piccino il mi’ nipote Filippo, “la torre che mangia” e non “del Mangia”… e direte voi, ti pareva strano che questi ‘briachi del Forumme non finissero a parlare di mangiare e bere?! Ma non era un notiziario “culturale”?! Diamine, lo è… ma abbiate pazienza cittini, cosa è la cucina se non storia, tradizione e cultura di qualsiasi popolo della terra?!
.….
Che v’ho chetato?! Bene, seguito! Allora s’incomincia!
Innanzitutto, dobbiamo rendere omaggio al vero ispiratore di questa impresa, senese illustre e compianto, il Pellegrino Artusi del Ponte di Ravacciano, ovvero Giovanni Righi Parenti. Nell’anno in cui il sottoscritto vide la luce, il suddetto dette alle stampe della Tipografia Ugo Periccioli (altro grande senese ma soprattutto selvaiolo) un volumetto chiamato “Mangiare in Contrada”, corredato di foto e illustrazioni, in cui le ricette sono suddivise per ciascuna consorella, raccolte intervistando chi, all’epoca, si occupava di preparare i convivi nelle cucine delle società.
Un vero e proprio manuale che la mi’ Zia mi regalò quando stavo per raggiungere i 18 anni, e già mi dilettavo ai fornelli da qualche anno. Passai quell’invernata (parecchio lunga e diaccina, ma riscaldata dall’impresA storicA della Robur) a provare alcune delle ricette che Righi Parenti aveva trascritto. I risultati furono - diciamo così - alterni, ma non per questo scoraggianti (il mì babbo forse avrebbe qualcosa da obbiettare, ma pace! ormai le pene sono in prescrizione). Anzi, ricordo che fu proprio allora che affinai la tecnica ai fornelli e al forno, cercando di non farmi prendere dalla mia tipica irruenza, né dalla prescia, e di andarci piano coi condimenti (specialmente col pepe nero! il sale, invece, per me è sempre rincarato).
In questa rubrica desideriamo quindi, senza abbandonare lo stile molto discorsivo e colloquiale del nostro sommo ispiratore, riportare alcune di quelle ricette, senza dimenticare qualche trucco personale che ho aggiunto, grazie a qualche ritrovato più moderno o alle semplici “esperienze” (leggi: troiai combinati) nel realizzarle.
Siamo quindi a Natale, e non c’è tavola senese dove non ci sia il Panforte a fine pasto. Tutti i dolci natalizi tendono ad avanzare, ma questo in modo particolare (complici i gusti molto diversi delle nuove generazioni), a meno che non sia quello che fa in casa la mia amica Monica: quello come lo metti in tavola, pare di buttare il granturco in mezzo ai piccioni di Piazza!
Cosa fare quindi del Panforte avanzato? Semplice: un bel Semifreddo!
Righi Parenti lo chiama “Panforte d’Agosto”, perché dice che va preparato in piena estate (tanto ormai il Panforte lo fanno tutto l’anno per i turisti!), chiaramente servito dopo un passaggio in congelatore di almeno 5 ore. Ma perché non farlo adesso, magari per l’Ultimo dell’Anno o per Befana? E chi ci vieta di farlo a Pasqua o per Santa Caterina?!
Scherzi a parte, prendete il Panforte (piuttosto abbondante) e sminuzzatelo quanto vi piace. Io consiglio di fare alcuni pezzi molto fini e di lasciarne altri più grossolani, per contrasto. Dopodiché, si prende una zangola fredda di congelatore, ci si mette mezzo litro di panna fresca, sempre fredda, e si monta fino a rassodarla bene bene, aggiungendo mezzo cucchiaino di cannella in polvere ed un paio di cucchiai rasi di zucchero, non di più: il Panforte è bell’e dolce di suo! Mescoliamo delicatamente i Pezzettini di Panforte alla Panna (e a questo punto, se volete, qualche mandorla intera, o tritata grossolanamente, male non ci sta!) ed infine incorporiamo, sempre con la massima grazia, sennò si smontano, due albumi freschissimi montati a neve ben ferma, sempre con un cucchiaio di zucchero e un pizzico di sale. A questo punto si può mangiare? No davvero! Il composto va messo in frigo per almeno un pomeriggio, sia in una ciotola unica che “porzionato”, come vi garba di più!
Se veramente volete fare un bel Gelato al Panforte, invece che con lo zucchero, la panna va montata con un tubetto di latte condensato, un trucco di recente scoperta per non far cristallizzare eccessivamente il composto in congelatore. Prima di portarlo a tavola, come ogni gelato casalingo che si rispetti, meglio se lo mettete un quarto d’ora in frigo, sennò è duro come un leccio!
Altro trucco: oltre che al Panforte, il semifreddo/gelato può essere fatto di Ricciarelli, ma regolatevi ancora di più con lo zucchero, o stuccherà davvero troppo. Coi cavallucci no, meglio zupparli nel vin santo (se il mi’ babbo si degna di farli avanzare… sie, addio nini!). In tutti i casi, se avete per casa qualche mandorla, mettetela sopra il semifreddo o il gelato a guarnizione, ci starà a pipa di cocco!
Vino d’accompagnamento: Vin santo del prete (ma non vi fate beccare attaccati alla bottiglia in sagrestia, come successe a me!), oppure un Mirto freddo o un liquore al Cedro che riprende i canditi del Panforte.
Se il Semifreddo è di Ricciarelli, l’Amaretto di Saronno ci sta come il Cencio in Chiesa la sera del Palio! Buon Appetito, Buon Natale, Buona Fine e Miglior Principio! (e mai come quest’anno s’aspetta tutti di finillo!)
Matteo Ricci
ARTICOLO TRATTO DAL NOTIZIARIO DEL FORUMME DEL 25 DICEMBRE 2020
domenica 17 dicembre 2023
Iconografia evangelica senese: l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività
Nessun sistema teologico incentrato sulla figura di Gesù di Nazareth può essere elaborato senza produrre una narrazione della sua vita e per converso, nessuna storia di Cristo può evitare di dar luogo ad una qualche forma di teologia.
Il principio di ciò
è che il Cristianesimo pone, al centro del proprio sistema di interpretazione
del mondo, un personaggio realmente esistito che può essere inserito in un arco
temporale ben preciso. Di lui si può dire che nacque tra il
Questi dati sono
stati tratti dai vangeli e da altre fonti antiche, ma non sono sufficienti ad
inquadrarlo in campo storico.
L’esigenza di
comporre dei resoconti relativi alle azioni di Cristo si sviluppò molto presto
con la diffusione dei racconti orali, detti aneddoti, aforismi, poi scritti
secondo una sequenza, assieme tematica e cronologica.
Si fa riferimento a
gli scritti di Luca, che lui stesso definisce “un racconto ordinato”. In realtà
la descrizione dei fatti di Gesù spesso si rivela come un’esigenza di
raccordare la sua figura con prefazioni bibliche del Messia, invece di descriverne
la sua successione, facendo risultare la narrazione lacunosa e delle volte
anche contraddittoria.
Andando avanti con
il tempo si centra la figura di Gesù collegandolo “all’economia” della
salvezza, così si ebbe bisogno di approfondire questa figura e di integrare
l’incompletezza dei testi sacri con altre fonti storiche.
Come si legge in
un’antico testo di San Nilo di Ancira, indirizzato a Olimpodoro, il Sinaita
chiede all’amico di rivolgersi al miglior artista che può trovare, affinché con
la sua arte dipinga i “due lati della
chiesa con scene dell’antico e nuovo Testamento, cosicché gli uomini che non
sanno leggere possano conoscere la Sacra Scrittura, osservando la pittura, e
siano incoraggiati ad emulare le memorabili virtù di questi servitori di Dio”.
L’evoluzione
iconografica di quelle immagini e i modelli che esse produrranno, diventeranno
un vero e proprio repertorio, non solo per i fedeli ma anche per i committenti
e soprattutto per gli artisti che li dovranno realizzare.
A Siena il primo
ciclo cristologico completo e superstite, si trova negli affreschi realizzati
nei locali sotto il Duomo, databili tra il 1270 e il 1280. Altro complesso
figurativo che illustra gli episodi evangelici, sempre presente a Siena lo
troviamo nella parte posteriore della Maestà
di Duccio, commissionata per l’altar maggiore della cattedrale senese e
terminata nel 1311; essa costituirà il modello al quale si ispireranno i
committenti e gli artisti a partire dagli anni venti del Trecento, quando si
dovranno realizzare tavole con il ciclo evangelico di Cristo o anche solo
singoli episodi della vita di Gesù.
Con il passare del
tempo si è avuto uno sviluppo di alcuni temi cristologici anche presso
committenti privati cosicché, accanto a raffigurazioni per decorare edifici
religiosi, troviamo anche dipinti per la decorazione di cappelle o di altari
presso ricchi privati, questo gia’ alla fine del XIII secolo.
Importante
valutazione è che vi è un’importante relazione di queste raffigurazioni con le
attività che si svolgono durante l’anno liturgico, il quale inizia proprio con
l’Avvento e dunque con le festività del ciclo natalizio, che si concludono con
l’Epifania, proseguendo con la Presentazione al Tempio, tutto il tempo della
Quaresima fino alla Pasqua.
Questa parte dell’anno
prende il nome di Temporale, poiché è dedicato alle festività di Cristo che si
conclude con l’ultima domenica dopo la Pentecoste. A questo periodo si integra
il periodo cosiddetto Santorale, che vede le festività dei Santi e della
Madonna.
Fin dal IV secolo,
si hanno delle raffigurazioni che contengono temi come l’Annunciazione, la
Natività, la Strage degli Innocenti e l’Adorazione dei Magi, non tanto per la
loro “storia”, ma quanto per il messaggio salvifico e dottrinale che
contenevano in se.
Le fonti canoniche
principali per le illustrazioni della nascita e dell’infanzia di Cristo sono
Luca e Matteo , tra i due il primo ci fornisce notizie più’ dettagliate circa
questi due momenti della vita di Gesù.
Il primo episodio
che ci viene narrato è appunto l’Annunciazione, e anche se tali raffigurazioni
traggono origine dal Vangelo di Luca, a partire degli inizi del V secolo il
contenuto iconografico di questa scena si arricchisce di particolari narrati
nei testi apocrifi, soprattutto da quanto è riferito nel Protovangelo di
Giacomo. Questo introduce caratteri originali che attraverso i secoli
caratterizzeranno la produzione figurativa di questo soggetto cristologico.
La più antica
illustrazione dell’Annunciazione che ci è stata tramandata a Siena, si trova in
una miniatura all’interno dell’Ordinario della Cattedre del 1215.
Il 25 Marzo per la commemorazione di quella festività, nella A di Annuntiatio nostri Salvatori, è raffigurata la scena dell’Annunciazione, nella parte inferiore si trova la Madonna con le mani giunte in preghiera, con indosso il maphorion , simbolo della sua verginità, che le copre il capo, dietro il quale è raffigurata un’aureola; di fronte a lei vi è una pianta fiorita, probabilmente simbolo di Vita ma anche di albero della tentazione, mettendo così in relazione Eva e la Madonna, il Peccato Originale e la Redenzione; nell’occhiello superiore appare l’Arcangelo Gabriele, che con le braccia tese verso Maria compie il gesto dell’annuncio.
Questa la prima
raffigurazione, che assolve pienamente la funzione di illustrazione del testo
biblico ed è l’inizio di una tradizione iconografica destinata ad imporsi nel
tempo.
Se guardiamo il
primo ciclo di affreschi sotto al Duomo, quello che troviamo è un’iconografia
più tradizionale, poiché i due “attori” sono posti sono l’uno davanti
all’altra con delle quinte architettoniche, che alludono alla città di
Nazareth.
La tavola di Simone
Martini, invece propone elementi nuovi. Eseguita nel 1333 per l’altare di
sant’Ansano del Duomo, è la parte centrale di un polittico; questo fatto
consolida il legame con il programma iconografico della decorazione del
transetto della cattedrale senese, e sottolinea ancora di più la relazione di
questi oggetti con le cerimonie liturgiche svolte durante l’anno.
Sono presenti anche
due figure laterali, sant’Ansano a sinistra e Santa Messina a destra, madrina
di battesimo di Ansano, martirizzata a Roma sotto Diocleziano nel IV secolo;
una novità è anche il ramo di olivo che torna in mano l’ Arcangelo, e ai gigli
posti dentro ad un vaso nella parte centrale, che insieme alle rose sono fiori
del Paradiso e simboleggiano vita e in questo caso simboleggiano luce, anche se
Bernardo di Chiaravalle nel suoi Commentari
questo fiore lo interpreta come simbolo di Cristo, in relazione a tutti i
momenti della sua vita, in questo caso nell’Incarnazione.
L’episodio che
precede la Natività è la Visitazione, che però sia nell’arte figurativa senese
e anche occidentale ha poche varianti, come anche del resto nella tradizione
iconografica bizantina.
Essenzialmente
esistono due varianti della Visitazione, una in cui Elisabetta e la Madonna si
abbracciano e l’altra in cui le due cugine conversano amabilmente con composta
nobiltà. Ovviamente la prima versione è quella più realizzata, come possiamo
ammirare nell’affresco del Sodoma nell’Oratorio di San Bernardino a Siena;
realizzata tra il 1515 e il 1516, raffigura l’emozione che sta per esplodere
tra le due donne, sottolineato dal gesto appassionato e drammatico dell’inchino
di Elisabetta, emozione contenuta invece in tutti gli altri personaggi che sono
alle spalle delle due donne, Giuseppe alle spalle di Maria, Zaccaria alle
spalle di Elisabetta e dei giovani, uomini e donne, che assistono al momento.
Proseguendo nella
lettura del testo evangelico si arriva alla narrazione della Natività di
Cristo.
Trattato molto
sinteticamente sia da Matteo che da Luca, ed è proprio la brevità della
narrazione che ha consentito alla tradizione iconografica cristiana di
arricchire la scena della Natività di particolari che traevano origine sia dai
testi apocrifi, sia dalla produzione letteraria strettamente legata alla
liturgia, partendo da Bernardo di Chiaravalle, fino ad arrivare alla Legenda Aurea, ove Iacopo da Varazze
riprende molte volte il misticismo cistercense di Bernardo.
Così
nell’iconografia della rappresentazione della Natività si assiste ad
un’arricchimento nelle rappresentazioni, che da semplici raffigurazioni ove vi è
un Gesù Bambino in fasce posto dentro ad una mangiatoia, insieme al bue e
l’asinello, diventano scene ricche di personaggi e più complesse di struttura.
Una svolta importante lo dette il Concilio di Efeso del 431, nel quale la
Madonna viene proclamata Theotókos, cioè
Madre di Dio, e che porta alla diffusione di una raffigurazione della Natività,
in cui la Madonna appare in trono col Bambino, ed è proprio a Siena che avviene
ciò. Nel 1215, il miniatore che decorò l’Ordinario della cattedrale ad uso dei
canonici, raffigurò, per illustrare la festività del Natale, una Madonna in trono con il Bambino; e come
per l’Annunciazione, la miniatura è inserita nella lettera N, che significa Nocte
illa sancta e costituisce l’inizio dell’Ufficio della Natività.
La Vergine è seduta
in trono con cuscino e tiene sulle ginocchia Gesù Bambino benedicente, questa è
una raffigurazione molto legata alla liturgia, che si ritrova anche negli
affreschi dei locali sotto il Duomo di Siena.
Nicola Pisano nel
1267 per il pulpito del Duomo invece, rappresenta una scena molto “complessa” ,
ovvero insieme alla Natività , mette
anche l’Annunciazione , la Visitazione e
l’Annuncio ai pastori
I committenti
chiesero a Nicola di raffigurare la Natività secondo la tradizione figurativa
orientale, mostrando in primo piano il Bagno
di Gesù con le sue levatrici. La composizione vede una Madonna posta al
centro, distesa su di un cuscino, avvolta nel suo maphorion, e con la testa voltata verso sinistra, come una donna
appena uscita dalla sofferenza del parto; questi elementi rendono la Madonna
più umana, facendoli perdere quella “maestà” che aveva nelle raffigurazioni più
antiche.
Gesù è avvolto in
fasce, all’interno di una grotta gli fanno caldo il bue e l’asinello; tutti
questi elementi hanno riscontro sia nella letteratura cristiana sia canonica
che apocrifa, ed hanno dei significati ben precisi: la grotta è in relazione
con il sepolcro che accoglierà Cristo dopo la sua morte, ma anche con l’Ade ove
Gesù scenderà dopo la Resurrezione; il bue e l’asinello, in principio
rappresentano l’umanità di Dio nato sulla terra.
Come detto sopra,
in primo piano vi è il Bagno di Cristo,
la cui fonte si trova nel Protovangelo di
Giacomo, ma anche nel Vangelo dello
pseudo-Matteo ed è rielaborata nella Leggenda
Aurea di Jacopo da Varazze. Questo episodio viene raccontato anche nei
vangeli apocrifi, e simboleggia la natura umana di Cristo.
Questa variante si
trova spesso nella produzione figurativa senese, anche in epoche diverse, come
si vede in un frammento di un’affresco in monocromo, facente parte di un ciclo
cristologico scoperto nella Chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano, eseguito
da Bartolo di Fredi negli anni sessanta del Trecento.
Qui il bambino è
rappresentato una sola volta, nel catino, mentre le levatrici gli fanno il
bagno, la mangiatoia è all’interno della grotta vuota, e sono presenti, a
destra, i pastori che rappresentano l’Annuncio
ai pastori.
Un caso particolare
riguardante la raffigurazione della Natività, sta nella tavola che era
collocata all’altare di San Vittore nel Duomo di Siena, poiché rientrava nel
programma iconografico della decorazione degli altari dei Santi Patroni; da
alcune testimonianze sappiamo che all’altare di San Vittore vi era una
Natività, segnalata nel 1575 da Monsignor Francesco Bossi, durante la sua
Visita Pastorale.
Nel 1591,
nell’inventario, troviamo scritto che all’altare di San Vittore vi era una
tavola attribuita a Bartolomeo Bulgarini, dipinta tra il 1351 e il 1361.
Questa aveva due
pannelli laterali su uno dei quali era rappresentato il santo Titolato a figura
intera, e nell’altra la Santa Corona.
Dalla seconda metà
del XV secolo alla prima metà del secolo successivo, vi è un cambiamento dato
dalla sostituzione della grotta con elementi architettonici classici o rovine
di edifici; si vede quindi la Madonna insieme ad un pensieroso San Giuseppe e
due angeli, uno dei quali è l’Arcangelo Gabriele, protettore fin dalla nascita
di Giovanni Battista, anche lui figura presente da questo momento in poi, nella
scena della Natività è che sta a preannunciare l’incontro con Cristo, sul fiume
Giordano ed il suo Battesimo.
Concludo questa
rassegna “Natalizia” con un’opera tutta senese, realizzata da Domenico
Beccafumi, verso il 1522, per l’altare di San Giuseppe, di patronato della
Figlia Marsili, che si trova nella chiesa di San Martino a Siena.
Qui i protagonisti sono
raccolti nei pressi di un’arco di trionfo; tra bagliori rossastri che si
stemperano in un tenue azzurrino dello sfondo, giungono i pastori in fila
ordinata e in prima battuta vi sono gli “attori” principali che risaltano per
la vivacità dei colori e il calore che emanano le loro gesta, un San Giuseppe,
che ricorda molto la figura di San Paolo che proprio Beccafumi aveva realizzato
qualche anno prima per la cappella di San Paolo nel Tribunale della Mercanzia a
Siena, rivolto al Bambino, con il suo
sguardo attento e protettivo; una Madonna che, con un gesto quasi pauroso,
svela il suo frutto, con sguardo amorevole e assorto, che Gesù contraccambia,
il suo corpo fanciullesco ama a una luce mistica.
Su tutti, come in
un rito magico, incombono quattro angeli seminudi, che formano con le loro
braccia un cerchio perfetto, che ci ricorda prima gli angeli di Rosso
Fiorentino, e poi la Danza di
Henrique Matisse agli inizi del Novecento, al cui centro plana la colomba dello
Spirito Santo.
Il modello iconografico che vediamo qui, con la Madonna che scopre Gesù, ricorda alcuni dipinti di Raffaello come la cosiddetta Madonna del velo, anche se qui il Beccafumi, usa un linguaggio figurativo più’ nervoso, raffinato e distaccato.
Caterina Manganelli
per le opere raffigurate si ringraziano le famiglie dei rispettivi autori
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