sabato 22 giugno 2024

Arciconfraternita di Misericordia di Siena

 

Nel territorio della Contrada del Leocorno è presente la sede storica di una delle più antiche ed importanti istituzioni della nostra città: l’Arciconfraternita della Misericordia di Siena.

La “Casa della Misericordia”, antico ospedale ed ente caritativo volto ad alleviare le sofferenze dei poveri e dei bisognosi, secondo la tradizione, sorse nell’anno 1250 su iniziativa del Beato Andrea Gallerani. Dopo la sua morte avvenuta nel 1251 i suoi seguaci, che militavano sotto la regola de Frati Umiliati, proseguirono ad impegnarsi, sotto la guida di un Rettore, nella carità.

Il primo riferimento storico si trova in un verbale del Consiglio Generale del Comune di Siena, stilato il 23 giugno 1251, nel quale si concedeva ai fratres Misericordiae il riconoscimento del regime giuridico dei lasciti “ad pias causas” identico a quello degli ordini religiosi. Nel giugno del 1347 i fratelli della “Casa della Misericordia” ottennero sempre dal Consiglio Generale il riconoscimento ufficiale per celebrare la festa del Beato Andrea Gallerani.

Di rilievo e di grande aiuto nella città fu l’opera svolta da questa Istituzione verso coloro che si trovavano in condizioni di estremo bisogno.

Dopo alcuni decenni di fruttuosa attività apparvero però i primi segni di crisi, principalmente di natura economica, che richiesero ripetuti interventi di sostegno da parte del Comune di Siena, il cui Consiglio Generale nel novembre del 1404 propose la trasformazione dell'ospedale della Misericordia in un ricovero per gli scolari dello Studio Senese. Infine, il Comune “motu proprio” provvide a trasferire i beni della “Casa della Misericordia” parte a Lo Spedale di Santa Maria della Scala in Siena, e parte all’erigendo collegio, al fine di costituire la struttura portante dello Studio Senese (Pubblica Università), ivi compresa la ex sede della confraternita da allora in poi chiamata “Casa della Sapienza”.

Nel 1408, con Bolla di Papa Gregorio XII, l’ordine dei Frati della Misericordia fu soppresso.

Verso la fine del secolo XIV fu fondata in Siena la Compagnia intitolata a Sant’Antonio Abate, istituzione caritativa, fin dai primordi la sede fu ricavata nel complesso edilizio della Chiesa di San Martino e della sua Canonica. L’erudito Girolamo Macchi nelle sue memorie (Memorie Senesi - Archivio di Stato di Siena) parlando della sede della Compagnia di Sant’Antonio nel manoscritto scrive “dove è l’ingresso alla Canonica di San Martino era una strada che scendeva alla sottostante Via di Pantaneto per trovare la Via e la Porta di Follonica” porta appartenente, stando al Gallaccini, al quarto cerchio delle mura urbane; cinta che fu spostata nei primi del 1200.

Tabella di possesso della Compagnia di S.Antonio 
Abate – ingresso chiostro via Porrione


In considerazione dei secoli trascorsi resta difficile tentare una ricostruzione dei locali sotto la volta di San Martino.

Questa Istituzione rivestì caratteristiche particolare fra le confraternite senesi, fece costruire infatti un piccolo ospedale ed un proprio oratorio dedicato alla Madonna della Stella, ovvero a S. Maria della Misericordia; da qui il nome di Venerabile Compagnia di S. Maria della Misericordia in S. Antonio Abate.

Il primo statuto, giunto fino a noi risale al 1526 nella cui prefazione i compilatori ipotizzano che il loro sodalizio fosse già attivo nei primi anni del 1300 quando possedeva due sepolture, una per i fratelli e una per le sorelle nella chiesa di San Martino; anche lo storico Giovanni Antonio Pecci nel manoscritto relativo al Terzo di San Martino fa riferimento alle predette sepolture.

Una successiva completa revisione statutaria avvenne nel 1715.

Come vedremo in seguito questa Istituzione ebbe un ruolo fondamentale nella nascita dell’attuale Arciconfraternita

Ripristinata, dopo le soppressioni leopoldine del 1784, la Compagnia si mantenne vitale fino ai primi decenni del secolo XIX. quando “sul declinare dell’anno […]1828 sorgeva nella mente di Giovanni Amidei, […] in quell’epoca priore della Compagnia, […], il lodevole e bel pensiero di convertire quella Compagnia, da lui rappresentata, in Confraternita di Misericordia, sul piede medesimo delle altre, che nelle più cospicue città della nostra bella Toscana esistevano”.

Da questo momento inizia il lungo e complesso processo che si concluderà sia con la trasformazione nel 1835 sia con l’inizio dell’attività della Confraternita di Misericordia di Siena.

Le  “Memorie della Venerabile Confraternita di S. Maria della Misericordia di Siena” compilate sotto la data del 30 Dicembre 1840 dal Cancelliere-Segretario, Pompeo Stiatti, riportano:  « […]A tale effetto Monsignore Arcivescovo di Siena valendosi delle sue facoltà Ordinarie procedé per mezzo del di Lui Decreto del 20 Giugno 1833 alla canonica soppressione della Compagnia di S. Antonio Ab.e, ed in luogo di sostituzione e surroga di detta Compagnia istituì e canonicamente eresse la Confraternita di S. Maria della Misericordia sulle norme di quelle di Firenze, e Pisa, con tutti i diritti, privilegi e come più diffusamente si legge in detto Decreto in fine del quale dichiarò l’Oratorio della nuova Fraternita esenti da ogni giurisdizione Parrocchiale, ed immediatamente soggetto ad Esso, [][[ed ai suoi successori, […] »

Campanella del servo – attualmente nell’atrio di via del Porrione


Alla Confraternita di Misericordia di Siena nel 1852 verrà attribuito il titolo di Arciconfraternita, con tutti i relativi diritti e privilegi.

Nello statuto del 1526 sono mentovate alcune tradizioni e ricorrenze che ancora oggi vengono solennizzate, prime fra tutte la festa del Santo Patrono: Sant’Antonio Abate il 17 gennaio (con la benedizione degli animali) e la festa della Madonna della Stella, a seguire la  partecipazione dei Confratelli alle Processioni di penitenza, del Venerdì Santo, dello Spirito Santo e del Corpus Domini, e sporadicamente per la Domenica in Albis o in altre particolari occasioni.

In particolari ricorrenze i confratelli e le consorelle indossano la veste storica (cappa e buffa) il particolare cappuccio, anche se esteticamente non è bello a vedersi, racchiude in se un profondo significato in quanto ha lo scopo di celare alla persona sofferente colui che cerca di alleviare le sue sofferenze.

L’Oratorio di S. Antonio Abate, e quello annesso dedicato alla Madonna della Stella, subirono una completa ristrutturazione nel 1842 su progetto dell’architetto Lorenzo Doveri.

Già alla metà del 1600 infatti esisteva il così detto “Cappellone delle donne”, luogo riservato alle donne della Confraternita, separato dall’Oratorio di S. Antonio Abate da un cortiletto interno; sopra l’altare c’era il quadro della Madonna sulla cui spalla destra brillava una stella da cui il nome “Madonna della Stella”. Il quadro faceva parte di un trittico.

La cappella della Madonna, con la ristrutturazione ottocentesca, fu trasformata nell’attuale atrio della Confraternita ed il suo altare demolito. Il quadro sopra citato trovò collocazione all’interno dell’Oratorio di S. Antonio, sul nuovo altare laterale di sinistra appena costruito. Sull’altare di destra fu posta invece la statua lignea di S. Antonio Abate.

Le due tavole laterali del trittico vennero custodite nella Sala delle adunanze, fino a quando nel 1919, a seguito dei nuovi lavori di restauro, ad opera di Alessandro Parri, gli altari laterali dell’Oratorio furono demoliti ed il trittico, inserito in un’unica cornice in legno dorato, opera dello scultore Tito Corsini, fu ricomposto sull’unico altare centrale.

Descrivere l’operato dell'Arciconfraternita nella metà del secolo passato non è facile a seguito del susseguirsi di continui mutamenti in ordine ai nuovi bisogni, alle nuove povertà; non ultima per la sua rilevanza l’evoluzione normativa e tecnologica che ha creato l’istituzione del 118, nel campo sanitario, che ha determinato significative modificazioni sia di carattere professionale che organizzativo.

Le novità più rilevanti sono state l’inizio del decentramento operativo (Taverne Arbia, sorta nel 1993, San Rocco a Pilli nel 1996, San Miniato nel 1997, Rosia nel 1999 e Ponte a Tressa nel 2002) e la costituzione dei Gruppi operativi, hanno permesso di avere nuove sinergie ed allo stesso tempo economie di scala.

Nel suo “Fare Prossimo” l’Arciconfraternita, pur adeguandosi alle circostanze ed alle necessità man mano emergenti, intende mantenere fermi i principi originari che ispirarono nei secoli i suoi fondatori e i confratelli, secondo il dettato evangelico.

"Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me" (Matteo, 25.40).


Oratorio – Via del Porrione

Tutto questo rimanendo al passo dei tempi e sempre in stretto contatto con la società civile, ma senza voler dimostrare niente agli altri, e senza voler affermare alcuna superiorità ideale nei confronti di nessuno.

La Carità Cristiana non si pone infatti come contropartita la riconoscenza degli uomini, o l'acquisto di un premio ultraterreno (che per quanto ambito, sarà un Altro a dover giudicare se sia dovuto), bensì deve essere dettata dall'amore per il prossimo nei confronti del quale si esplica con spirito di condivisione e di servizio.

All’interno dei locali dell’Arciconfraternita sono presenti prestigiose opere d’arte; notizie più approfondite sulle vicende storico-artistiche riguardanti la Misericordia si trovano nel volume dal titolo “La Misericordia di Siena attraverso i secoli – Dalla Domus Misericordiae all’Arciconfraternita di Misericordia”, Protagon editori, 2004, nel quale si trovano i contributi di illustri studiosi e storici senesi.

Francesco Fusi


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 20 Giugno 2020 dedicato alla Contrada del Leocorno



domenica 16 giugno 2024

La Civetta e Piaccina

 

Vincere il Palio per tre anni consecutivi è un’eccezionale impresa riuscita nella
storia solo in otto occasioni a sei differenti contrade, tra queste vi è la Civetta che è l’unica ad aver fatto “tripletta” con lo stesso fantino: Luigi Menghetti detto “Piaccina” che portò nel Castellare i drappelloni dell’agosto 1811 e del luglio 1812 e 1813.

Il fantino di Empoli, all’epoca quasi cinquantenne, aveva corso nella Civetta già tre volte ed in particolare nel luglio 1810 rivestiva il ruolo di favorito ma, pur partendo tra i primi, venne ferocemente ostacolato da Vecchia, suo accanito rivale, che afferrò per le briglie il cavallo di Piaccina fermandolo a San Martino.

Nell’agosto 1811 Luigi Menghetti tornò nella Civetta su un morello maltinto del sellaio Vignozzi e vinse una carriera molto combattuta ed altalenante: partì in testa la Giraffa, con Botto, ma dopo pochi metri passò al comando l’Onda con Brandino il quale subì prima l’attacco di Caino nella Pantera e poi di Geremia, figlio di Piaccina, nel Drago, che riuscì a passare primo ma fu subito superato dal babbo che, dopo più di due girate d’attesa, andò a trionfare precedendo Ferrino maggiore nella Tartuca.

Nel luglio successivo alla Civetta andò in sorte un morello di Giovanni Batazzi sul quale venne riconfermato Piaccina, anche stavolta l’empolese non partì bene e la vittoria sembrava una questione a due tra Caino nel Drago, che uscì primo dalla mossa e Vecchia nel Montone che passato in testa sembrava in grado di vincere per la prima volta dopo ben venti partecipazioni.

All’ultimo Casato, invece, Caino si avvicinò minacciosamente a Vecchia che, dopo un breve ma violento scambio di nerbate, ebbe la peggio cadendo a pochi metri dall’arrivo, Piaccina fu lesto ad approfittarne e portò il secondo Palio consecutivo nel Castellare per nulla atteso visto che la grande favorita della vigilia era la Chiocciola con Brandino, che cadde al primo giro e poi Drago e Montone che, come descritto, gettarono via la vittoria nerbandosi.

Per il Palio di luglio del 1813 la Civetta venne estratta a sorte e le fu assegnato un sauro debuttante di Bernardino Fontani, stavolta la vittoria arrivò in maniera netta ed incontrastata, nonostante Piaccina avesse praticamente tutti contro, pare per le scarse regalie elargite ai colleghi negli anni precedenti.

La mossa fu tormentata e contestata, ci vollero tre allineamenti in cui non mancarono le scorrettezze tra i fantini ed una caduta rovinosa di Brachino nell’Aquila, Piaccina fu furbo a trovare spazio e sfruttando il primo posto al canape scappò nettamente primo e vinse respingendo senza grosso affanni un primo attacco di Brandino nel Bruco ed un estremo tentativo di Pettiere nella Giraffa.

A questa vittoria seguirono alcune polemiche in quanto uno dei Mossieri, il Barone Luigi Bichi Borghesi, era uno dei più importanti e facoltosi protettori della Civetta e per molti diede la mossa in un momento di confusione estrema, dopo i precedenti allineamenti falliti, proprio per favorire Piaccina.

Fu quella la quinta vittoria per Piaccina, la sua seconda giovinezza che ebbe altre conferme negli anni successivi con le vittorie del luglio 1814 nel Bruco, dell’agosto 1818 nel Leocorno e l’ottava ed ultima del luglio 1826 ancora per la Contrada di Barbicone.

Anche per la Civetta gli anni successivi furono positivi con una frequenza di vittorie piuttosto regolare, con almeno un trionfo in ogni decennio.

Il solido connubio tra Piaccina e la Contrada del Castellare si confermò in altre cinque occasioni: nell’agosto 1818, 1821, 1823, 1825 e nel luglio 1831, portando il totale delle sue presenze ad undici, importante primato tuttora imbattuto per un fantino nella Civetta; il record di tre vittorie, invece, fu eguagliato da Primo Arzilli detto “Il Biondo” che il 16 agosto 1949 sulla Popa conquistò il terzo trionfo col giubbetto rosso e nero listato di bianco.

La carriera del 3 luglio 1831, in particolare, registrò la sessantacinquesima ed ultima partecipazione di Piaccina, un risultato incredibile di longevità paliesca impossibile da battere considerato che la carriera dell’empolese, partita il 16 agosto 1787, durò fino alla soglia dei suoi settant’anni.

Roberto Filiani




Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 15 Giugno 2020 dedicato alla Contrada Priora della Civetta

sabato 8 giugno 2024

Le prime testimonianze documentali dell'esistenza della Tartuca


Per quanto gli storici ed eruditi senesi del Settecento – come il Gigli, il Macchi, il Torrenti – ritenessero che la Tartuca fosse la Contrada più antica di Siena, essendo compreso nel suo territorio il nucleo della città altomedievale (ovvero Castelvecchio), non c’è alcuna certezza, né testimonianza documentaria, che ciò corrisponda al vero. Di sicuro i tartuchini presero a vantarsi di questa primogenitura, tanto da metterla nero su bianco nella Memoria istorico cronologica della Contrada della Tartuca, cioè la prima trattazione delle vicende storiche della Contrada, pubblicata in occasione della solenne consacrazione dell’oratorio nel 1818.


In realtà non sappiamo con precisione quando gli abitatori di Castelvecchio, delle Murella, delle vie dei Maestri e delle Cerchia, di Porta all’Arco e della castellaccia di Sant’Agata cominciarono ad aggregarsi sotto il nome della Tartuca. Nelle sporadiche menzioni di Contrade che si susseguono lungo il corso del XV secolo la Tartuca non viene citata, almeno direttamente. Con estrema probabilità un gruppo di abitatori della Compagnia militare di S. Pietro in Castelvecchio prese parte alla pugna del 1 marzo 1495 sotto l’insegna della famiglia Tegliacci, a quell’epoca dimorante nell’omonimo palazzo di via S. Pietro (oggi palazzo Buonsignori, sede della Pinacoteca nazionale). Questi pugnatores sponsorizzati dai Tegliacci avrebbero potuto costituire l’embrione contradaiolo della Tartuca. Si noti infatti che la rigida attribuzione dei territori delle antiche Compagnie militari alle Contrade è in buona parte frutto della fantasia interessata del conte Pecci, colui che riportò in vita l’Aquila. Come dimostrano le zone di residenza dei primi ufficiali della Contrada che ci sono noti, a formare il territorio della Tartuca concorsero porzioni, anche abbondanti, di S. Quirico in Castelvecchio e appunto S. Pietro in Castelvecchio, oltre ovviamente alle canoniche Porta all’Arco e Sant’Agata. Inoltre, almeno fino all’emissione del Bando sui nuovi confini del 1730, via S. Pietro era considerata dagli storici ed eruditi senesi facente parte della Tartuca. L’ipotesi che una parte della schiera dei Tegliacci nel 1495 fosse l’espressione primordiale della successiva Tartuca, non è dunque affatto peregrina.

Ma purtroppo attestazioni documentarie della Tartuca non si trovano fino all’epoca della guerra fatale col tiranno Carlo V ed il suo bieco scherano Cosimo de’ Medici. La Contrada di Castelvecchio non prese parte alla grande caccia ai tori del 1506, descritta doviziosamente da un anonimo visitatore fiorentino e che vide in Campo ben 12 delle Contrade attuali. La Tartuca fu però anche l’unica che non partecipò neppure alla più celebre fra tutte le cacce ai tori tenutesi in Piazza del Campo: quella del 15 agosto 1546. I motivi di questa assenza sono ignoti. La possibilità che la Tartuca non si fosse ancora formata parrebbe da scartare, in virtù della documentazione di poco posteriore che, al contrario, ne certifica l’esistenza anche prima della caduta di Siena. Rimangono in campo tutte le altre varie congetture: i tartuchini non si cimentarono nella caccia del 1546 per motivi politici (lo spettacolo pubblico doveva celebrare l’allontanamento dei Noveschi dal governo), oppure per mancanza di denari, o forse per scarsità di uomini? Le carte oggi a conoscenza degli studiosi tacciono.


Si consideri comunque che per tutta la prima metà del Cinquecento le testimonianze scritte (cioè quelle a noi note) sulle Contrade sono infinitamente poche, e che non si può escludere in assoluto che la Tartuca – al pari delle altre 4 mancanti nel 1506: Bruco, Civetta, Leocorno, Pantera – non si sia già costituita precedentemente alla prima citazione documentaria. Ad accrescere il mistero, quella che forse è davvero la prima notizia ufficiale dell’esistenza della Tartuca è contenuta in un foglio senza data, ma incollato al manoscritto che registra le note organizzative della caccia del 1546. Questa carta non datata riporta l’esito di un’altra caccia di tori dell’epoca in questione, e quindi dimostra come la Tartuca già esistesse. D’altronde la partecipazione agli spettacoli pubblici era facoltativa e non tutte le Contrade presenziavano di volta in volta (a questa caccia dalla data sconosciuta mancarono, ad esempio, Aquila, Civetta e Montone). Chi scrive aveva a suo tempo avanzato l’ipotesi che la caccia in questione potesse essere quella del 15 agosto 1555, svoltasi nella piazza grande di Montalcino dove si erano ritirati i patrioti irriducibili; ma gli elementi a suffragio di questa teoria sono comunque labili, per quanto affascinanti.

Arresasi anche la Repubblica ritirata in Montalcino, i Senesi superstiti rientrarono in patria e si cercò di costringerli ad onorare l’usurpatore mediceo con una grandiosa caccia di tori da allestirsi nel 1560 alla venuta dell’esecrato Cosimo. È in tale contesto che la Tartuca viene finalmente citata nei documenti, al pari delle altre 16 consorelle. La Contrada di Castelvecchio appare avere una consolidata prassi organizzativa, tale da non poter lasciare spazio a dubbi circa la sua esistenza antecedentemente allo scoppio della guerra con l’impero. Ad ulteriore riprova di ciò, la Contrada aveva la propria bandiera in deposito presso la chiesa di Sant’Agostino, evidentemente da prima dell’assedio. Non solo, ma già possedeva un carro a forma di tartaruga – detto appunto “la tartuca” – che era certamente servito nelle cacce ai tori precedenti ed era conservato in qualche rimessa dell’Opera del Duomo durante gli anni della guerra.

Rimane da dire – o meglio da ribadire – che il nome “Tartuca” non è certamente di derivazione spagnola, come una vulgata facilona e incolta prese ad ipotizzare numerosi decenni fa. Il lemma – peraltro attestato nei documenti senesi più antichi nella forma “Tartucha”, a riprodurre graficamente la tipica aspirazione della c di matrice locale – ha bensì un’origine tardo latina, addirittura su una base del sostrato etrusco-tirrenico. Secondo le più recenti indagini linguistiche e filologiche, insomma, tartuca (presente con le sue varianti similari tartuga, tortuca, tortuga nelle lingue romanze) è la forma più antica dell’italiano, che poi si modernizza in tartaruga a partire dal XVI secolo. Parrebbe perciò che a Siena il vocabolo antico si sia cristallizzato nel nome della Contrada, sopravvivendo nei secoli.

Giovanni Mazzini

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 14 Giugno 2020 dedicato alla Contrada della Tartuca



domenica 2 giugno 2024

Le strade della Giraffa: lo specchio della storia di Siena

“Il mio materiale (...) è stato raccolto dagli scritti insignificanti, assolutamente privo di pretese letterarie, e da vecchi soldati (...) ho basato la verità della mia storia su di loro, esaminando i loro racconti e confrontandoli con quello che avevo scritto, e quello che mi hanno detto con ciò che avevo sentito (...) e da tutti questi materiali l'intero tessuto della mia storia - la mia vera storia - è stato tessuto”.

Così scriveva la principessa bizantina Anna Comnena, una delle prime donne conosciute che ha scritto di storia nella storia (e scusate il rigiro di parole).

Nata a Costantinopoli il 2 dicembre 1083, muore, sempre a Costantinopoli nel 1153, ed è figlia dell'imperatore Alessio I Comneno e di Irene Ducaena.

L’ho presa larga, direte, per raccontare la storia del rione e delle strade dell’Imperiale Contrada della Giraffa.

Ma la ricostruzione dei secoli che hanno vissuto questi vicoli ben si adatta a quella visione del raccontare. Su queste strade, in questi vicoli, attraverso i secoli, hanno camminato i personaggi più importanti di Siena, quelli che ne hanno determinato i nodi storici, come le persone più povere, i vagabondi, le prostitute. E ancora mistici e papi e principi e regine.

E poi letterati che ne hanno raccontato la suggestione ("Qualche sera, io escivo e andavo in Piazza di Provenzano: c’era più fresco e vedevo la campagna doventar madreperlacea, dietro le mura della città, (...) Quando m’allontanavo dal murello, i tre lampioni della piazza erano già stati accesi, la facciata della Chiesa era più grigia, la cupola pareva per sparir nel cielo con la sua palla dorata che non luccicava più. Via Lucherini, in salita, era oscurissima: io tornavo a casa toccando uno per volta i colonnini dalla parte del mio marciapiede". Federigo Tozzi, Bestie).



Un rione (e la sua Contrada) esplicitamente ricordati già dallo pseudo Gentile Sermini (con questo nome è stato fino ad oggi conosciuto quello scrittore abbastanza misterioso, del quale si sa poco o niente, che è stato recentemente identificato con l’aristocratico Antonio di Checco Rosso Petrucci) alla fine del ‘400 quando descrive un gioco di pugna. Uno spicchio di città che si porta dietro la memoria del leader ghibellino Provenzano Salvani e della sua famiglia della quale si cercò, nella Siena guelfa, di “ripulire” la storia obliterando lo scomodo passato filo-manfrediano di colui che aveva cercato “di recar tutta Siena alle sue mani”. Salvo poi vedere che Provenzano Salvani Siena non la tradì mai, anzi morì per lei e per difenderla. E qui, i Salvani (estinti nel 1723), avevano i loro principali possedimenti il cui ricordo è rimasto nella toponomastica dell’area: piazza e via Provenzano Salvani ne sono l’esempio. Quindi, strade che vissero la gioia del trionfo di Montaperti, la sconfitta dello stesso Provenzano nella battaglia di Colle Val d’Elsa nel 1269, ed il passaggio dalla Siena ghibellina a quella guelfa.

Dopo essere il centro pulsante della politica, il rione diventa sostanzialmente un quartiere malfamato, fatto di povera gente e prostitute. E anche questo lascia una traccia profonda nell’intitolazione delle strade. La casa di tolleranza di Vicolo della Viola (prima detto vicolo del Buon Costume) e un’altra presente in via di Provenzano vengono chiuse, addirittura, il 1° gennaio 1927 dopo forti proteste dei Giraffini per “ragioni di moralità e di decenza” dato che, specie di notte, provocavano “scene e scenette punto edificanti” (questo articolo, tratto da “La Nazione” del 31 dicembre 1926, mi fu segnalato a suo tempo dall’amico Duccio Nassi, che oggi ci ha lasciato ma che tutti, giraffini e non, ricordiamo con immenso affetto).

Via dei Baroncelli (sono di parte, lo so) ha una storia in itinere. Si credeva che il suo nome (o almeno io stessa l’ho creduto fino ad ora) derivasse dalla Compagnia Laicale di Sant’Anna dei Ciechi e Stroppiati, fondata nel 1624 per accogliere ed effettuare attività di mutua assistenza a poveri ciechi e storpi, maschi e femmine, e che aveva sede sotto le volte della chiesa di Provenzano. L’oratorio della Compagnia, officiato per un certo periodo anche dalla Contrada della Giraffa, si trovava appunto verso la metà di via dei Baroncelli. Pensando ad una strada dove persone con handicap fisici e poveri chiedevano l’elemosina e cercavano aiuto dai confratelli, si è ipotizzato che ciò avesse lasciato traccia nel nome attestato nello stradario del 1789 (prima la strada era detta Costa di Sant’Anna). Ora qualche dubbio viene, perché dal fondo dell’Archivio della Collegiata di Provenzano sono emersi, in questa stessa zona, possedimenti dell’importante famiglia senese dei Baroncelli, benefattrice della chiesa legata alla Vergine dei Miracoli.

Dicevamo quartiere povero e destinato alle case di piacere soprattutto da quando, durante la dominazione spagnola, siamo nel 1548, le truppe occupano, tra gli altri, anche il convento di San Francesco.

Ed eccoci al fatto che segna il completo cambiamento dell’area: la tradizione vuole che proprio un soldataccio spagnolo (poi chissà come andò davvero la storia, ma poco cambia nello sviluppo degli eventi futuri) spari ad un'immagine della Madonna (una delle tante) che si trovava sulla facciata di una delle case del rione. La tradizione vuole che questa immagine fosse una “Pietà”, cioè Maria che teneva in braccio il figlio morto. La tradizione vuole che proprio di fronte alla stessa icona fosse solito fermarsi a pregare Bartolomeo Garosi, conosciuto come Brandano, mistico e profeta che decretò, molti decenni prima che si avverassero i fatti, che tutta Siena si sarebbe recata a pregare in Provenzano e che lì sarebbe stata la salvezza della città.


Di fatto lo sparo ci fu (se alla Madonna di Provenzano si toglie la “veste” d’argento si vede benissimo il foro di proiettile) e coloro che assistettero al fatto si adoperarono per rimettere insieme i pezzi della statuetta in terracotta. Da allora la Vergine (senza il figlio in braccio, anzi, senza braccia, come la vediamo ancora oggi) iniziò a dispensare grazie e iniziò a nascere, intorno a lei un culto ed una devozione tale che si riempirono le strade di pellegrini provenienti da ogni luogo. Di questa “presa” che la Vergine dei Miracoli aveva sul popolo ne sono (intelligentemente) ben consapevoli i Medici, che dopo la caduta di Siena nel 1555 alla fine dell’assedio, sostennero e promossero il culto alla Madonna di Provenzano divenendo i maggiori mecenati nella costruzione del suo Tempio (consacrato nel 1611).

E con la costruzione della chiesa di Santa Maria della Visitazione, eh sì, questa è la dedicazione di Provenzano, le strade della Giraffa riacquistarono nuovo lustro e nuova dignità. Non serve, vero, che vi ricordi che il Palio, il nostro, è nato in suo onore nel 1659?

E fu, proprio per addurre l’acqua che serviva alla fabbrica della Collegiata di Provenzano che venne costruito un fontino, alimentato dall’acqua del bottino di Fonte Gaia. Il fontino venne chiuso nel 1879 insieme al vicolo (e dentro quel vicolo chiuso si trova ciò che resta della facciata della “Casa dei Miracoli” sulla quale era murata l’icona mariana che, sempre la tradizione, vuole che appartenesse ad una discendente di Santa Caterina) anche se la sua acqua, indispensabile al rione, venne dirottata in via delle Vergini, dove, l’anno successivo, venne costruita una nuova fonte, che esiste ancora oggi.

Un'ultima annotazione: la Collegiata di Santa Maria in Provenzano è sì nel territorio dell'Imperiale contrada della Giraffa, ma essendo la Chiesa del Palio è la Chiesa di tutte e diciassette le Consorelle e quindi, come si dice a Siena, “non fa Contrada”.

Ora molto altro potrei scrivere perché, come diceva Anna Comnena dalla quale sono partita: per raccontare gli eventi, bisogna utilizzare tutti i fili, anche i più apparentemente insignificanti, dei quali è intrecciato il complesso tessuto della storia.

E se vi chiedete cosa c’entro io a scrivere della Giraffa vi rispondo che queste strade sono le mie strade. Sono luoghi che amo. Sono le persone che mi hanno accolta, al di là e oltre i colori contradaioli. Sono le strade nelle quali vivo. E, per dirla con Gabriel Garcìa Marquez: l’amore non presuppone monopoli, perché il cuore "ha più stanze di un bordello". Appunto.

Maura Martellucci

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 7 Giugno 2020 dedicato alla Imperiale Contrada della Giraffa

domenica 26 maggio 2024

I Numeri Unici del Drago - di Massimo Biliorsi



Il primo Numero Unico della Contrada del Drago è quello del Palio della Pace. Non poteva essere altrimenti: la Contrada negli anni trenta è una ristretta, seppur ben organizzata, cerchia di persone con personaggi come Mattei e Nozzoli, capaci di tenere assieme sede e società ma con problemi numerici che si riflettono in settori allora molto laterali come l’editoria. La rinascita del dopoguerra è una rinascita sostanziale, ed ecco un Numero Unico agile e semplice, con quella copertina un po’ liberty, con un drago che fa marameo e collaborazioni illustri come quella di Mario Verdone. Lo sappiamo che l’evoluzione di questa pubblicazione fu ovunque lenta e meditata fino alla fine degli anni sessanta del novecento.
Il Drago si toglie la cuffia nell’agosto del 1962 e una nuova generazione, giovane e un po’ irriverente, guida la Contrada di via del Paradiso. E questo non poteva non riflettersi sulle copertine dei quattro Numeri Unici, quasi una pubblicazione annuale, che testimoniano i successi del 1962, 1963, 1964 e 1966. Sono, nell’ordine, “Grancarriera”, “Piazza pulita”, “Il filo di Arianna” e “Dragomania”. Si assomigliano per grafica, formato e contenuti. Qui appaiono figure a noi molto care: i disegni e le copertine di Emilio Giannelli, i testi sagaci e pungenti di Andrea Muzzi e Enrico Giannelli. 
Passano vent’anni e finalmente il Drago vince: c’è molto da raccontare in “Beati gli ultimi”, titolo di Paolo Corbini, con un’altra generazione che si racconta in un successo insperato e condito dai disegni del già mitico Giannelli, Pizzichini e Pollai. Il Numero Unico è realizzato a Firenze dall’editore dragaiolo Carlo Balocchi.
Passano tre anni ed ecco “Ippomanzia”, titolo ideato dal sottoscritto, dove il pretesto del filo conduttore è quel ferro magico che Benito ha potuto riavere prima della corsa.
Si arriva al 1992, ed ecco il Numero Unico forse più coerente e capace di interpretare una bella stagione. E’ in due volumi, con un cofanetto, e si intitola “Ricamato”, titolo di Enrico Giannelli e copertina del fratello, visto che il drappellone era stato così realizzato.
L’anno dopo siamo di nuovo al lavoro e c’è modo di sbizzarrire la fantasia e soprattutto l’ironia. Si tratta di “035 United Colors of Dragon”, ancora mia l’idea, e tutta la capitaneria vittoriosa è ritratta nuda come la celebre pubblicità della Benetton. C’è un inserto satirico Cuore che è restato davvero nel cuore di chi lo realizzò.
Eccoci al 2001: drappellone realizzato da chi disegnava i manifesti per il cinema, Silvano Campeggi, e quindi tutta la festa prende l’impronta e la vocazione del grande schermo. Non per niente si chiama “Nuovo Cinema Paradiso”, strada dragaiola e film vanno d’accordo, ed è racchiuso proprio nella scatola a forma di pizza cinematografica. Cambiano le generazioni, qualcuno di noi va a divertirsi con la commissione regia della cena ed ecco Susanna Guarino che guida un gruppo di giovanissimi per “D’Oppio”, due volumi che consacrano un grande cavallo e una dirigenza vittoriosa all’esordio. Ed infine “Favoloso”, una festa e una pubblicazione che ripercorrere epiche vicende, con un altro gruppo di giovani guidati stavolta da Giovanni Molteni, carta anticata per una storia nuovissima, con una particolare sottolineatura al fatto che, accaduto soltanto alla Torre, un proprio contradaiolo avesse disegnato il cencio portato a casa. Un viaggio lungo quasi un secolo, un viaggio editoriale che segna il passaggio dei tempi, delle mode ma sempre con una volontà e un entusiasmo che, nonostante l’arrivo di nuovi mezzi di comunicazione, segna la costante e bella presenza di un cartaceo che sprigiona sempre ricchezza e nostalgia. 
Per questo immortale. 

Massimo Biliorsi


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 1 Giugno 2020 dedicato alla Contrada del Drago

domenica 19 maggio 2024

Rubrica: Il Palio al Cinema - Introduzione e "Palio" di Alessandro Blasetti

Introduzione
 
Il Palio di Siena ha assistito attivamente, nel passaggio dal XIX al XX secolo, al mutare della società contemporanea, così aveva fatto con le epoche precedenti. In questa deriva storica, però ha avuto modo di “conoscere” e farsi “raccontare” dai nuovi media, in particolare dai mezzi radiofonici e televisivi; ma in questa rubrica, alla quale ci dedicheremo, la Festa è entrata a far parte anche e soprattutto della storia del cinema italiano e internazionale.
In questo senso ci “avventureremo” lungo una linea storica piuttosto breve, ma intensa, analizzando alcuni dei frame che riguarderanno dei contributi fondamentali. Nelle prossime settimane concentreremo il nostro interesse verso pellicole storiche, che non si sono limitate al racconto del Palio dell’epoca, ma ci hanno mostrato, per quanto fosse possibile, la storia di Siena e d’Italia: quella del Ventennio, quella del cosiddetto “boom economico” e quella del nostro tempo.
Insomma, quella del Palio è divenuta una storia non soltanto orale, scritta o dipinta, ma ha sentito il bisogno e una forte necessità, di essere rappresentata anche sul grande schermo. In effetti, il cinematografo è sorto con quella idea “romantica” e in qualche modo “futurista” del movimento. E se escludiamo, per qualche istante, le immagini della vita contradaiola e quelle del Corteo Storico, l’essenza della velocità e delle falcate dei cavalli sull’anello di tufo risiede in quel desiderio umano, quindi antropologico, che è poi diventato realtà: filmare l’azione, la velocità e fermarla su un supporto per sempre, per poterla rivivere continuamente di generazione in generazione. Ed è questo che ha condotto, in alcuni casi, positivamente all’unione di Palio e multimedialità. Ma quello che ha interessato il cinema successivo, e non quello delle origini, è la rappresentazione del Palio nel suo “rito”, che non è soltanto una corsa di cavalli, ma un “giuoco” serio che, nel conflitto tra le Contrade, ritrova la vera essenza dell’orgoglio cittadino, dell’appartenenza e quindi di un’identità immutabile e sempre nuova. Nel prossimo intervento ci occuperemo di Palio (1932) del regista Alessandro Blasetti.

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 26 Aprile 2020 dedicato alla Contrada di Valdimontone



Palio 
di Alessandro Blasetti (1932) 
 
Come avevamo accennato nello scorso numero, stavolta ci occuperemo del film di Alessandro Blasetti, “Palio” (1932). Avevamo fatto cenno anche di come il Palio, nel passaggio di secolo, si sia “adattato” ai nuovi media: prima la radio, poi il cinema e, per finire, la televisione. Ci eravamo focalizzati, inoltre, su di un aspetto molto interessante, del quale gli amanti del cinema non dovranno mai scordarsi: il sogno “eterno” di fissare per sempre un’azione, perpetuarla nel tempo e soprattutto custodirla. Un impegno non da poco per quanto riguarda, in maniera particolare, il repertorio e l’archivio multimediale della Festa arricchito dall’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione che hanno iniziato a cambiarci la vita. D’altra parte viviamo in quell’epoca, fortunata o meno, non sta a noi sentenziare questo, che Walter Benjamin aveva definito, nel 1936, “della sua riproducibilità tecnica”.
Del film di Blasetti, “Palio”, conosciamo molto bene la trama e non è questa la sede per rammentarla ai lettori e a coloro che, per un motivo o per l’altro, non hanno ancora visto la pellicola (chi ama il cinema, di conseguenza conosce le sue regole: mai fare “spolier”!). E non sarà nostro compito o intenzione, qui, farne un’analisi filmica più precisa. Per questo, dopo la visione del film, invitiamo i lettori interessati ad approfondire il tema attraverso due importanti saggi scritti dalla studiosa Paola Micheli: “Un Palio per il cinematografo”, Il Leccio, Siena, 1997; “Il cinema di Blasetti, parlò così. Un’analisi linguistica dei film (1929-1942)”, Bulzoni Editore, Roma, 1990. 


Nella storia del cinema, e qui intendiamo la finzione cinematografica, il Palio è stato dapprima protagonista assoluto, per poi divenire, in alcuni casi, “comparsa episodica” (oggi gli studiosi la definiscono “cinematografia di promozione turistica”). Una “comparsa” importante, intendiamoci, ma che con la trama principale ha poco collegamento, se andiamo a ridurre il film all’osso.
Ci scusiamo per il gioco di parole, ma “Palio” è un film sul Palio, a differenza, per citarne uno, di “Quantum of Solace” (2008) di Marc Forster, per i motivi sopra citati. Il film del regista italiano, Blasetti, ha avuto l’onore di “nascere” dal soggetto di un senese noto al mondo dello spettacolo come Luigi Bonelli. È il ritratto di una Siena in bianco e nero, che dà vita a una sorta di “realismo” della finzione e, nel contempo, ci mostra una città che non c’è più, almeno sotto alcuni aspetti (interessante, per esempio, è la sequenza che riguarda i lampioni che, al tempo, circondavano, insieme ai colonnini, Piazza del Campo). “Fiction” e “realtà” hanno uno strano rapporto con lo spettatore e riguardo questo sarebbe interessante confrontarci, ma non è questo il luogo, con gli studi condotti da Siegfried Kracauer. Gran parte delle sequenze di “Palio” furono girate in interni e la recitazione degli attori è più teatrale e poco cinematografica. Le sue origini si specchiano in quella tradizione del teatro italiano di stampo ottocentesco, e in questo caso ha dei “ritagli” anche comici, fornendo allo spettatore delle divertenti “gags”. Ma siamo nel 1932, in pieno Ventennio, e quello che vediamo nelle sequenze ci riporta alla mente qualche documentario o filmato dell’Istituto Luce sulla Festa che, particolarmente, era interessato e focalizzato a evidenziare l’importanza delle monture, delle bandiere, dei vessilli e delle gualdrappe. Un racconto “romantico” del Corteo Storico che mette in risalto gli alfieri, le chiarine, che intonano la Marcia del Palio, il Carroccio, quello del tempo, i fantini, i cavalli e altre componenti che marcano con insistenza la natura “antica” della tradizione senese.


Poi, verso la fine del film, dopo una lunga attesa, entrano i cavalli in Piazza, disputano una Carriera interminabile (5 giri), e viene azzardata anche una ripresa con “camera-car” in un breve segmento della Corsa. Altre inquadrature, invece, avvengono dalla Torre del Mangia. Un fatto curioso è che alcune riprese del Corteo Storico furono realizzate il 15 di agosto del 1931, prima della Prova Generale. Ciò che, per certi versi, accomuna la “fiction” di questo film a “La ragazza del Palio” (1957) di Luigi Zampa è proprio la sequenza della Carriera. Zampa, però, al contrario di Blasetti, ha fatto un uso eccessivo del “found footage” mischiando filmati di diversi Palii, prove e immagini relative alle batterie della Tratta. Ciò che fortemente ha caratterizzato la pellicola, prodotta dalla Cines, è la sua attenzione “linguistica” nei confronti dell’italiano e del dialetto “toscano”. La sequenza di apertura presenta delle didascalie, tipiche di un cinema muto, che non esiste ormai più, che servono tuttavia ad enfatizzare l’aspetto dell’”antico”, di un immaginario “medievale” o “rinascimentale”, comune allo spettatore. Oggetto di polemica fu invece il “parlato” degli attori che dialogavano fra loro non in senese ma in fiorentino: un errore imperdonabile.
 
Lorenzo Gonnelli

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme dell' 11 Maggio 2020 dedicato alla Nobile Contrada dell'Oca

 

domenica 12 maggio 2024

La Festa Titolare dell'Oca, e la processione per la Santa


La festa titolare della Nobile Contrada dell’Oca inizia quando abili operai ocaioli, con amore e qualche bercio, montano il fondale: un grande apparato ligneo esposto a fianco dell’Oratorio.
      
L’opera si presenta come un grande scenario architettonico dipinto, in alto le tre figure teologali, fedesperanza e carità, che si appoggiano ad una maestosa trabeazione, sorretta da quattro colonne corinzie.

Il progetto porta la firma di Agostino Fantastici, noto architetto fontebrandino; viene arricchito da una pittura centrale che rappresenta “il matrimonio mistico di santa Caterinarealizzato da Alessandro Maffei; sue probabilmente, anche le decorazioni ornamentali.

Il maestoso altare crea uno scenario meraviglioso, impreziosito dalle bandiere, dai braccialetti e dai canti che scaturiscono per l’accensione del Rione; per quattro giorni Fontebranda si anima, favorendo brindisi e canti che nascono spontanei, accompagnati dal suono dei tamburi, che proviene dalle fonti, punto di partenza di ogni Fontebrandino.


L'Altare - Foto di Pino Bonetto


L’omaggio ai defunti, l’iniziazione, i battesimi, ed il Mattutino, portano l’ocaiolo ad affrontare il giorno seguente, “IL GIRO”: classico saluto alle Consorelle ma impreziosito sul finale, con la processione in onore di Santa Caterina.  

Dopo il rientro da Piazza del Campo, ci si riunisce tutti a San Domenico dove, con devota disciplina, ci “mettiamo in formazione” per la processione:

I primi a partire sono i monturati, che una volta arrivati in fondosi dispongono ai lati della via, alzando la propria bandiera creando così’, una sorta di tunnel bianco rosso e verde, sotto il quale passano i dirigenti della Contrada e gli uomini che si dispongono ai lati dell’altare.      


Il "tunnel" di bandiere - Foto di Marco Francioli


A seguire le donne con in mano le candele, simbolo di luce e speranza, avanzano intonando l’inno di Santa Caterina “a gloria di Siena ed Italia”, con fierezza e commozione, ed esplodono in un pianto quando “all’imbocco” di via Santa Caterina, si ha la visione più bella che si possa avere: le bandiere che incorniciano la via, i braccialetti che la illuminano e rendono magica quella visione e che sembrano quasi fiaccole, a causa sicuramente degli occhi lucidi; dietro, in fondo, ma non perché meno importanti, i bambini: anche loro cantano l’inno e portano in mano, fieri e delle volte impacciati, il giglio, fiore di Santa Caterina; lo poggiano con profonda devozione alla base dell’altare e si dispongono lateralmente per far passare Lei, la Santa, un busto d’argento sbalzato opera di Giuseppe Coppini del 1807, che porta in sé, nella sua base, una reliquia di Caterina, un pezzetto di falange; preceduta e solennemente accompagnata da un tamburino e una coppia di alfieri, viene trasportata da quattro uomini dell’Oca, posta sopra all’altare e il Correttore da inizio alla Messa Solenne.

L’ocaiolo lo sa, quella non è una semplice messa ma il momento in cui la Contrada, diviene a tutti gli effetti FAMIGLIA: gli ocaioli si scambiano sguardi, molte volte pieni di lacrime per la forte emozione che stanno provando, percepita anche da chi ocaiolo non è, consapevoli di stare vivendo un momento particolare; gli sguardi lucidi confluiscono verso gli occhi della Santa, creando una sorta di filone tra gli ocaioli di ieri, di oggi e di domani, che ci fa capire di essere parte di una grande e splendida famiglia, quella di F
ontebranda.

Caterina Manganelli     


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme dell' 11 Maggio 2020 dedicato alla Nobile Contrada dell'Oca

Ettore, un Panterino che conquistò il mondo

  Una Porsche rossa che saliva le curve di San Marco, per arrivare in modo impaziente nel suo Pian dei Mantellini, dove ad attenderlo c’eran...