domenica 25 agosto 2024

Tutto iniziò con un cinghiale: Storia di un Simbolo

 

Nel 1506 un anonimo cronista fiorentino racconta la Caccia dei Tori svoltasi in Piazza del Campo e nel descrivere le “schiere” partecipanti descriveva l’alfiere Bastiano che sventolava una bandiera sulla quale era raffigurato un cacciatore che assaliva un cinghiale con uno spiedo. Era la schiera di Selvalta, che aveva già fatto la sua comparsa anche in alcune cronache precedenti con il nome di Val Piatta, e che aveva scelto come simbolo che la raffigurasse una scena di caccia: quale simbolo migliore per il rione dei cacciatori, dal quale l’esercito senese prelevava i suoi migliori arcieri? 


Che fosse una Contrada fortemente legata all’idea della caccia lo si capisce anche dal privilegio che le fu riservato per tutto il secolo di aprire e chiudere il corteo delle “Cacce dei Tori”, delle quali Cecchino Libraro in una cronaca del 1546, fa intendere anche che potesse essere stata anche la promotrice: scrive infatti: “Selvalta, vera insegnia et origine di questa Caccia”. 

Il simbolo del cinghiale ebbe tuttavia vita breve perché solo 40 anni dopo, nella già citata Caccia del 1546, il rione di Selvalta si presentò con una macchina da combattimento a forma di rinoceronte, legandosi così indissolubilmente a questo animale che poi ne diverrà il simbolo circa tre secoli dopo. Perché il rinoceronte? Con questa scelta la Selva si va a inserire nel gruppo delle Contrade che scelsero un animale esotico per rappresentarle (Giraffa, Pantera, Torre…), un animale che all’epoca era misterioso, quasi mitologico, e che grazie a questo riusciva a destare stupore e meraviglia in tutti coloro che lo ammiravano, oltre che una certa inquietudine e un timore reverenziale; lo stesso timore che si ha verso qualche cosa che non si conosce fino in fondo. Un animale perfetto per essere raffigurato sulle macchine da guerra, poiché tra le sue caratteristiche simboliche aveva sia la ferocia e l’aggressività, per via della sua mole e soprattutto del suo corno, ma anche qualità difensive, che molto spesso erano privilegiate (Chiocciola, Istrice, Tartuca…), e che si manifestavano in virtù del suo essere animale corrazzato. 

Il rinoceronte in Europa era già conosciuto in epoca romana, ma tuttavia se ne erano perse le tracce fino al 1515 anno in cui il Re del Portogallo ne ricevette in dono uno da un principe indiano (il simbolo selvaiolo infatti raffigura un rinoceronte indiano e non un rinoceronte africano). Non è da escludere che la scelta di un tale animale totemico fosse quindi anche legata alla leggendaria vicenda che accompagnò l’arrivo di quel primo rinoceronte in Portogallo, ovvero un duello organizzato tra un rinoceronte e un elefante per stabilire quale fosse l’animale più forte del mondo, conclusosi con la vittoria del rinoceronte. Dall’arrivo di quel primo rinoceronte nel 1515 il mito di questo animale presto si diffuse in tutta Europa, grazie anche e soprattutto alla celebre incisione che fu realizzata da Albrecht Dürer, e in virtù delle sue caratteristiche catturò ben presto l’immaginario collettivo tant’è che divenne anche simbolo personale del Duca di Firenze Alessandro De’Medici; non per niente Alessandro Leoncini nel suo volume “Divide et Impera” ipotizza anche che la Contrada lo avesse scelto proprio per questo motivo, non tanto per adulazione, quanto per pragmatismo politico considerata la delicata situazione del periodo tra Siena e Firenze. 

Dopo la Caccia del 1546 un’altra importante testimonianza sull’evoluzione del simbolo della Selva si ha con il famoso quadro dipinto da Vincenzo Rustici intorno al 1590: “Caccia ai tori nel Campo di Siena”. Qui riappare la schiera selvaiola accompagnata da una bandiera bianca, da un albero non meglio identificato, sui rami del quale si possono intravedere già gli arnesi da caccia, e da una macchina da guerra rappresentante un indefinito animale che potrebbe essere nuovamente il rinoceronte. Fa quindi la sua comparsa il simbolo della quercia mentre resiste ancora l’animale totemico, il quale però, con la fine delle Cacce, viene accantonato. Il rinoceronte finita la sua funzione di macchina da guerra quindi scompare non riuscendo nemmeno a ribattezzare la Selva, cosa che invece era avvenuta nella quasi totalità di tutte le altre Contrade che dalla loro macchina da guerra presero il nome. 

Particolare tratto da “Caccia ai tori nel Campo di Siena” di Vincenzo Rustici (1590 ca.)

Ben presto simbolo della Contrada diventerà così esclusivamente la quercia, o per meglio dire il rovere, simbolo che è chiaro riferimento al nome della Contrada (ormai divenuto Selva da Selvalta) e che viene fin da subito accompagnato dagli arnesi da caccia caricati sopra i rami. Un elemento simbolico che può sembrare un dettaglio ma che in realtà ci racconta qualcosa della Contrada più della quercia stessa, riferendosi alle già citate qualità da cacciatori degli abitanti del rione e che in maniera così forte ne avevano caratterizzato la propria storia. 

Non è chiaro il momento in cui la quercia diventa il simbolo vero della Contrada perché, dopo quella prima apparizione nella Caccia dipinta da Rustici, per lungo periodo, ovvero per quasi tutto il XVII Secolo, le cronache sembrano non farne mai menzione riferendosi alla Selva solo tramite i suoi due colori, il bianco ed il verde, esattamente come avvenne per l’Onda che per simbolo ebbe solo il bianco e nero a liste ondulate fino a 1700 inoltrato.  Sia come sia il simbolo della quercia caricata di arnesi da caccia ben presto si stabilizza e accompagna la Contrada per tutto il XVIII Secolo, lo si ritrova ad esempio nel Drappellone della ricorsa organizzata dalla Contrada nel 1730, ricorsa che in realtà non fu mai effettuata a causa del furto delle Sacre Particole dalla Basilica di San Francesco la sera del 14 Agosto e della quale il Drappellone è conservato per motivi non chiari nel Museo della Giraffa. 

Tuttavia, contrariamente a quanto avvenuto per tutte le altre Contrade che non modificarono più da quel momento in poi in maniera radicale il proprio simbolo (fa eccezione l’Aquila che per motivi politici per un breve periodo perse una delle due teste), la Selva visse nel XIX Secolo un periodo di forti cambiamenti, sia per quanto riguarda il simbolo ma anche per quanto riguarda i colori. Per quanto riguarda i colori facciamo giusto un breve accenno al ruolo del bianco, che da colore dominante venne lentamente relegato a colore di partitura attraverso diverse fasi, durante le quali per alcuni periodi fu in parti uguali con il verde e l’arancione in una sorta di tricolore alla francese. Per quanto riguarda il simbolo invece nella prima metà del Secolo si riaffaccia il rinoceronte… nel “Vestiario del fantino della Selva” approvato dal Comune nel 1830 il rinoceronte fa la sua bella comparsa ai piedi della quercia, ben presto però scompare nuovamente ma come si può intuire dallo Stemma tratto dal Manoscritto “Le Contrade di Siena” del 1836 diventa ormai elemento simbolico di piena appartenenza tant’è che non compare sul simbolo ma accompagna lo stesso all’interno di una bandiera affiancato dalle bandiere di San Giovanni e Vallepiatta.

Stemma tratto dal manoscritto “Le Contrade di Siena” del 1836


Nel 1876 la Selva sceglie di battezzare “Rinoceronte” la sua società di mutuo soccorso, ma per poter inserire nuovamente l’animale sullo stemma deve aspettare il 1889, anno in cui il Re Umberto I concesse a tutte le Contrade di poter utilizzare i propri simboli sui propri stemmi. La Selva ne approfitta e ridisegna il proprio stemma aggiungendo il capo d’azzurro Savoia con il sole fiammeggiante recante la scritta “U” ma soprattutto reinserendo ufficialmente il pachiderma. Fu così che finalmente si stabilizza in maniera definitiva uno degli stemmi più ricchi di storia, iniziata con un povero cinghiale infilzato da uno spiedo e terminata con uno dei simboli più ricchi e carichi di elementi simbolici di tutto il panorama senese.


Simone Pasquini 

Si ringrazia vivamente l’archivista selvaiolo Alessandro Fineschi per il supporto e la consulenza 

Fonte principale: Bestiario Senese di Alberto Fiorini, ed. Il Leccio (2007)


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 15 Agosto 2020 dedicato alla Contrada della Selva

Le peregrinazioni della Contrada dell’Istrice nelle chiese del suo territorio

 

Un importante intervento edilizio nella strada maestra di Camollia fu la costruzione, negli anni Venti del sec. XVI, della cappella dedicata alla Presentazione della Vergine, volgarmente detta di San Donnino, a fianco della chiesa parrocchiale di San Pietro alla Magione, a quel tempo appartenente ai cavalieri Gerosolimitani. L’edificazione della cappella fu probabilmente correlata a una grave pestilenza subita a Siena, in particolare in quella zona. Nel 1523 sull’altare veniva trasferita – lo annota Sigismondo Tizio, cronista e sacerdote, a quel tempo abitante in Camollia - l’immagine della Madonna col Bambino, già dipinta ad affresco sulla parete esterna del cimitero annesso alla Magione. Il nuovo edificio, terminato nel 1526, è attribuito a Bartolomeo Neroni detto il Riccio su disegno di Baldassarre Peruzzi. Durante la visita apostolica del 1575 l’arcivescovo Francesco Bossi aveva stabilito che fosse vietato celebrarvi la messa, finché fosse rimasto aperto sul fronte. Attorno al 1623 la Contrada dell’Istrice iniziò a ufficiare questa cappella: il piccolo edificio fu così chiuso con una parete in muratura. Dalla visita pastorale del 1670 si ha notizia che gli uomini della Contrada vi si adunavano regolarmente.


Cappella della Presentazione della Vergine (San Donnino) e San Pietro alla Magione


Girolamo Macchi, erudito senese che compilava le sue “Memorie” fra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, annotava che nel 1709 gli Istriciaioli lasciavano la cappella di San Donnino e passavano nel vicino oratorio della compagnia laicale della Madonna di Fontegiusta, alla quale donavano 50 talleri e un bacile d’argento, cioè i premi del palio vinto nell’agosto di quell’anno. L’Istrice conseguiva quel palio - fatto ricorrere dalla Torre - con il cavallo Stornello di Siena, il fantino Giovan Maria, il priore Giuseppe Amadori e il capitano Anton Maria Amadori.

La chiesa in cui la Contrada dell’Istrice veniva ospitata apparteneva a una compagnia laicale che l’aveva edificata in forme ‘grandiose’ nel secondo Quattrocento.  Qui c’era davvero spazio sia per i confratelli che per gli uomini della contrada: un altare fu così lasciato all’ufficiatura dell’Istrice. Tuttavia, convivenze di questo tipo furono raramente pacifiche: questioni di prestigio e preminenza, di culto e talvolta economiche inquinavano spesso i rapporti. La tensione fra Istriciaioli e confratelli di Fontegiusta portò alla rottura nel marzo del 1733, in quanto i membri della confraternita non vollero che il parroco della Magione celebrasse nel loro oratorio le Quarantore, benché fosse stato invitato dalla Contrada. Gli Istriciaioli furono così spinti a cercarsi un’altra sede e si rivolsero a don Michelangiolo Morandi, parroco di Santo Stefano alla Lizza dall’ottobre 1708 (lo sarà fino alla morte avvenuta il 10 agosto 1735), il quale aveva giurisdizione anche su San Bartolomeo Apostolo alle Castellaccia.


Santa Maria in Portico a Fontegiusta
 

Qui merita aprire una breve parentesi su San Bartolomeo Apostolo, chiesa oggi scomparsa, situata accanto alla Porta Camollia, dove oggi è la piazza Chigi Saracini, sul lato sinistro per chi esce dalla Porta. Attestata come parrocchia fin dal 1226, quando tutta questa area attualmente quasi priva di edifici era invece densamente popolata fino alle mura, la chiesa aveva subito pesanti danni nel corso dell’assedio di Siena del 1554. Il pessimo stato e la mancanza dei necessari lavori di rifacimento (“ecclesia diruta tempore belli senensis nec unquam fuit restaurata”) erano stati sanzionati con una severa reprimenda nel 1575 dall’arcivescovo Francesco Bossi. Il parroco ser Antonio di Domenico “dei Petri”, da lui interrogato, aveva però risposto che avrebbe voluto restaurare la chiesa ma che gli era stato proibito dal granduca e dal governatore, i quali volevano allargare la strada e fare altri lavori in quella zona. Ser Antonio aveva dichiarato all’arcivescovo Bossi che le sei famiglie appartenenti alla parrocchia e abitanti all’interno della porta erano passate nella cura della Magione, mentre lui stesso continuava ad occuparsi dei parrocchiani che abitavano fuori della Porta. Il Bossi gli ordinò di procedere comunque al restauro e, in caso vi fossero difficoltà, di riferire al visitatore o all’Ordinario.  Tuttavia, la chiesa di San Bartolomeo continuò ad essere malmessa, tanto che decadde da parrocchia con l’annessione a Santo Stefano alla Lizza. Nonostante le condizioni in cui si trovava, fu accettata come nuova sede dagli Istriciaioli intenzionati ad allontanarsi da Fontegiusta. L’accordo fu sanzionato   con un atto notarile stipulato nella curia arcivescovile il 15 dicembre 1733. Quattro anni dopo, nel 1737, la Contrada otteneva in restituzione i tre drappelloni dei palii vinti nel luglio 1716, nel luglio 1721 e nel luglio 1726 che erano rimasti in Fontegiusta.  

Nella relazione inviata nel 1739 alla Balìa di Siena e alla Consulta di Firenze,  il priore dell’Istrice Giovanni Soldani così riassumeva i ‘viaggi’ da una chiesa all’altra del territorio che avevano caratterizzato la storia passata  della Contrada da lui governata e che erano finalmente terminati grazie all’atto di donazione del parroco, confermato dal pontefice regnante: “La Contrada dell’Istrice avendo dimorato per molti anni nella chiesa della Madonna del Belverde, a lato della chiesa parrocchiale di San Pietro alla Magione, e poi per cinquanta e più anni nella chiesa di Fontegiusta, e dall’anno 1733 in qua dimorano nella chiesa di San Bartolomeo apostolo, chiesa parrocchiale annessa alla cura di Santo Stefano, come per donagione fatta dal reverendo signore don Angiolo Morandi, rettore di detta parrocchia e per indulto apostolico di nostro signore papa Clemente XII”.


Particolare della non più esistente Chiesa di San Bartolomeo
tratto da "Pianta di Siena" di Rutilio Manetti – Archivio di Stato di Siena


Il Soldani precisava anche che la Contrada teneva in affitto una casetta a lato della “nostra chiesa”; credo per abitazione del custode. L’onoranda sedia nel 1739 era composta, oltre che dal priore, dal vicario Giuseppe Posi, dai consiglieri Felice Pazzagli e Francesco Fantini, dal camerlengo Salvadore Rensi, dal maestro dei novizi Antonio Frittelli, dai sagrestani Angiolo Canavai e Gaetano Daviddi, dal custode Antonio Cellesi. Le cariche dimostrano, se ci fosse bisogno, l’importanza della presenza dell’oratorio nella vita di qualsiasi contrada.

Tuttavia, la permanenza dell’Istrice in San Bartolomeo non fu così lunga e le peregrinazioni non erano ancora terminate, come invece si era augurato il priore Soldani.   San Bartolomeo alle Castellaccia era davvero in pessime condizioni, pertanto nel 1788 la Contrada chiese e ottenne in possesso definitivo la chiesa dei Santi Vincenti e Anastasio, già antica parrocchia soppressa qualche anno prima. Comunque la Contrada mutava il nome del suo nuovo oratorio in San Bartolomeo, sia per mantenere la devozione all’Apostolo, sia per ricordare la chiesetta nella Castellaccia in cui era approdata con tanto entusiasmo negli anni Trenta del secolo XVIII.  

La chiesa di San Bartolomeo fu ulteriormente gravemente danneggiata dal terribile terremoto del 26 maggio 1798. Il suo destino era inesorabilmente segnato: così fu ridotta a magazzino dall’acquirente Ferdinando Pieri.

Della chiesa accanto a Porta Camollia oggi del tutto scomparsa rimangono alcune memorie nella sede museale dell’Istrice, come la grande tela con Il martirio di San Bartolomeo, di scuola napoletana del XVII secolo. La Contrada ha voluto sottolineare la sua continuata devozione all’apostolo Bartolomeo, collocandone sull’altare di destra dell’oratorio la statua lignea, opera del 1932 di Torquato Casciani.


Patrizia Turrini


Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 29 Agosto 2020 dedicato alla Contrada Sovrana dell'Istrice

venerdì 16 agosto 2024

Dediche dei Palii e soggetti dei Drappelloni


L'articolo 1 del regolamento del Palio stabilisce che, nelle carriere del 2 luglio e del 16 agosto, il popolo senese “solennizza le ricorrenze religiose della Visitazione e dell'Assunzione in cielo di Maria Vergine”: si può dunque affermare che i Palii ordinari siano sempre dedicati alla Madonna.

Ancora con riferimento alle carriere ordinarie, l'articolo 93 di detto regolamento prescrive che i drappelloni devono rispettivamente recare l'immagine di “Maria Santissima che si venera nella Chiesa di Provenzano” e quella di “Maria Vergine Assunta in cielo” e aggiunge “quanto alla parte allegorica, nei Palii ordinari, qualora il Comune non creda di prescriverne il soggetto, è libero il pittore di proporlo”.

Viene dunque chiaramente sancita una distinzione fra dedica e soggetto, circostanza che non sussiste in caso di Palio straordinario, nei quali ovviamente la dedica della carriera e il soggetto del drappellone coincidono. 

Per questo motivo mi pare più corretto usare il termine “celebrativo” in riferimento a un Palio ordinario nel cui drappellone si sia voluto anche commemorare eventi, ricorrenze o personaggi storici, mentre credo che la definizione “dedicato” sia corretta solamente citando i Palii straordinari. 

Ciò premesso, analizzando brevemente i Palii alla tonda disputati dal 1692 in poi, ovvero dalla data in cui i verbali delle carriere sono stati redatti dai cancellieri di Biccherna, il primo Palio che viene considerato “straordinario” a tutti gli effetti, e che celebrava l'elezione a cardinale di Giovan Battista Tolomei, fu quello disputato il 3 luglio 1712. Il drappellone, al centro, riportava lo stemma del porporato. 

Dopo di quello, e fino alla metà del 1800, vennero corse altre carriere straordinarie dedicate alla governatrice Violante di Baviera, ai granduchi di Toscana, ai sovrani dell'effimero regno d'Etruria creato da Napoleone o a regnanti stranieri in visita. I drappelloni (del resto non tutti conservati) solo in alcuni casi riportavano l'araldica del personaggio per cui il Palio veniva indetto. 

Con il risorgimento e l'unificazione italiana intervennero significativi cambiamenti: il Palio straordinario del 27 aprile 1860 venne dedicato a Vittorio Emanuele II re d'Italia, che presenziava alla festa; nel drappellone, in alto, spiccava lo stemma sabaudo contornato da bandiere tricolori. 

il drappellone del 2 Giugno 1861 vinto dall'Oca

Per ben due anni consecutivi, inoltre, il 1861-62, il palio di Provenzano venne anticipato al 2 giugno, data della festa nazionale (ebbene sì, cadeva nella stessa data anche durante il regno sabaudo!). In questi due drappelloni, casi unici nel novero dei Palii ordinari, scomparve l'iconografia mariana, sostituita da una scritta celebrativa della ricorrenza. La comunità senese, in seguito, insorse e, dall'anno successivo, ottenne che il Palio di Provenzano fosse riportato alla sua data canonica del 2 luglio. 

Nello stesso 1862, inoltre, venne indetto il primo Palio straordinario dedicato a un avvenimento non legato a clero e nobiltà: il decimo congresso degli scienziati in Siena. 

E' solo nel corso del ventesimo secolo, tuttavia, che divenne più consueta la celebrazione di particolari avvenimenti o personaggi in occasione dei Palii ordinari; per esempio, il Palio del 2 luglio 1933 che evocava il giubileo di quell'anno, o ancora quello del 16 agosto 1956 che onorava il 25° anniversario dell'Accademia Musicale Chigiana. 

il drappellone del 16 Agosto 1956 vinto dall'Istrice

Volendo stilare una lista senza pretese di esaustività, fra i personaggi più commemorati in occasione dei Palii ordinari, e a cui sono stati dedicati più Palii straordinari, non si può non ricordare Santa Caterina; numerosi artisti e letterati (soprattutto senesi come Federigo Tozzi, Simone Martini, Duccio di Buoninsegna, Giovanni Duprè, Cecco Angiolieri ma anche i non senesi Pinturicchio e Dante Alighieri); e ancora eventi internazionali (conquista della luna, 2° centenario della dichiarazione dei diritti dell'uomo); guerre e liberazione della città (Palio della pace, 150° anniversario dei caduti universitari senesi nella battaglia di Curtatone e Montanara, i 70 anni dalla liberazione di Siena e dei comuni della provincia); anniversari di rilevanza nazionale (20° della Repubblica Italiana, 70° del diritto di voto alle donne, 150° dell'unità d'Italia). 


Mauro Massaro

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 13 Agosto 2020

domenica 11 agosto 2024

Il cappotto nicchiaiolo del 1834

 

Fare cappotto è di per sé un’impresa eccezionale riuscita solo diciassette volte nella storia, tra questi vi è quello conquistato dal Nicchio nel 1834 che ha una caratteristica unica essendo il solo realizzato, o per meglio dire completato, con l’apporto di un cavallo scosso.

Ma andiamo con ordine, per il Palio di luglio il Nicchio ebbe in sorte il cavallo del momento un forte morello di Lorenzo Jacopi reduce dal cappotto, insieme a Giovanni Brandani detto “Pipistrello”, dell’anno precedente.

Per il Capitano Paolo Tognazzi venne quindi naturale riformare l’accoppiata che aveva dominato nel 1833 anche se va sottolineato che in agosto il morello dello Jacopi vinse scosso dopo la caduta di Pipistrello al primo San Martino.

Non è da escludere che nella scelta del capitano nicchiaiolo influì anche un fattore scaramantico visto che l’ultima vittoria del Nicchio, arrivata dopo ventisette anni di digiuno nell’agosto 1826, era stata conquistata da Luigi Brandani detto “Cicciolesso”, ossia il babbo di Pipistrello.

La carriera definita scellerata, ovvero poco spettacolare, dai cronisti dell’epoca, fu come da pronostico dominata dal Nicchio: dopo una mossa problematica, per via dell’assembramento di cavalli creatosi verso lo steccato, partì in testa l’Onda con l’esperto Bonino ma Pipistrello, anche sfruttando una serie di clamorosi errori altrui, al primo San Martino era già saldamente in testa.

Il solo a portare qualche insidia al battistrada fu il Gobbo Saragiolo nell’Oca ma Pipistrello non ebbe difficoltà ad incrementare il suo vantaggio spalleggiato, come in altre occasioni, dai parenti Ghiozzo nel Bruco, Giacco nella Chiocciola e Brutto nel Leocorno, altri esponenti della dinastia dei “Brandini” che visse in quegli anni il momento di maggiore prestigio e potenza.

La vittoria fu ovviamente salutata con entusiasmo dai nicchiaioli che qualcuno definì, senza troppi giri di parole, “infanaticati”, anche il giro vittorioso confermò questo stato di esaltazione collettiva: “…il Palio è rimasto in giro per tutto il giorno, badiamo che non abbiamo a seguire i fatti per la troppa allegrezza dei vincitori…”



Il Palio d’agosto si presentava, invece, molto più incerto soprattutto per l’assenza del morello dello Jacopi, dominatore dei tre Palii precedenti e per la mancanza di significativi punti di riferimento vista la scelta di ben sette barberi debuttanti.

Pipistrello venne naturalmente confermato dal Nicchio su un baio oscuro esordiente su cui esistono divergenze circa il nome del proprietario, per alcuni Giovanni Batazzi per altri Gaetano Santi.

Il valore omogeneo dei cavalli si confermò durante la corsa che ebbe il suo primo sussulto a San Martino dove, a strettissima distanza, girarono ed iniziarono un’accanita lotta di nerbate il Gobbo Saragiolo nella Selva, Bonino nell’Onda e Pipistrello che però cadde malamente al secondo passaggio davanti alla Cappella.

Lo scosso del Nicchio rimase comunque nella scia dei primi nonostante il Gobbo Saragiolo l’avesse preso per le briglie e negli ultimi metri ebbe un guizzo irresistibile andando a precedere di un soffio la Selva e l’Onda.

L’arrivo fu, cosa frequente in quegli anni, aspramente contestato con tre popoli a reclamare la vittoria, a risolvere la questione ci pensò il Granduca Leopoldo II, presente al Palio con la famiglia, il quale confermò, senza possibilità d’appello, il verdetto dei Giudici della Vincita con un lapidario e leggendario “Nicco scosso!”, frase che diventò il sigillo per l’insperato cappotto.

Per Pipistrello fu quella la quarta vittoria consecutiva, ottenuta peraltro in sole otto presenze con l’ausilio fondamentale della bea bendata che mise le ali a due cavalli scossi.

Nel luglio 1836, per la Tartuca, Pipistrello conquistò la sua quinta ed ultima vittoria chiudendo la sua breve e fulminante carriera con la quattordicesima partecipazione nell’agosto 1838.

Curiosamente il Nicchio negli anni successivi, pur montando spesso fantini appartenenti alla famiglia Brandani, tra cui babbo Cicciolesso, non si rivolse più al protagonista del cappotto del 1834 che per questo rimase imbattuto col giubbetto dei Pispini.


Roberto Filiani

Foto Marc De Hert

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 9 Agosto 2020 dedicato alla Nobile Contrada del Nicchio

domenica 4 agosto 2024

Alla scoperta del Pensionario

Intervista al Tenente Colonello Carlo Saveri dell’Arma dei Carabinieri realizzata per il Notiziario del Forumme del 13 Agosto 2020

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Spesso durante le sere di inverno o nella frescura di quelle estive ci ricordiamo degli anni passati, dei palii corsi e cominciamo a parlare di speranze frantumate, lacrime versate e ovviamente di cavalli. Perché in fondo lo sappiamo: sono loro i veri protagonisti della corsa, sono loro che benediciamo e che accompagniamo con gli occhi carichi di emozione e speranza e sono sempre loro che alla fine ringraziamo di aver realizzato il nostro sogno di vittoria. Molto spesso ci chiediamo quale sia la vita condotta dai "barberi" una volta terminata la loro carriera sul tufo. Molti rimangono dai loro proprietari trattati come figli, altri invece sono accuditi con altrettanta cura e zelo nel pensionario.

Di questa istituzione presente sul territorio senese da quasi trent’anni, poco o nulla sapevamo a parte che fosse un paradiso per i cavalli.
Grazie alla disponibilità del Tenente Colonello Carlo Saveri dell’Arma dei Carabinieri, Comandante del Reparto Carabinieri Biodiversità di Siena abbiamo avuto modo di approfondire alcuni aspetti riguardo l’origine e le funzioni di questa struttura.


Zullina (nata nel 1995; 1 Palio corso +1 a cui non ha partecipato per iperpiressia , esordio: 2 luglio 2001, ultimo Palio: 2 luglio 2001. Dal 2001 risiede al pensionario).


Quali sono le origini del Pensionario?

“Il Pensionario nacque nel 1991, grazie ad un accordo tra il Comune di Siena e il Corpo Forestale dello Stato. Abbiamo sempre avuto un grande rapporto di collaborazione col Comune e l’idea di un Pensionario per i cavalli del Palio fu un progetto all’avanguardia per l’epoca e molto originale.

Per tanti anni, per convenzione, il Corpo Forestale ha sostenuto tutti i costi del Pensionario. Da qualche anno anche il Comune contribuisce con una quota alle spese del Pensionario; la convenzione è triennale.”

 

Quali sono le funzioni del Pensionario? Come viene gestito?

“Oggi, rispetto al passato, è cambiato molto il modo di allenare e utilizzare i cavalli destinati anche al Palio, grazie pure al Protocollo Equino del Comune di Siena. Cavalli come quelli che avete visto con noi, stando alla nostra esperienza, arrivano a vivere anche fino intorno ai 30 anni. È un dato interessante questo, perché non vi sono molte conoscenze sulla vera durata della vita dei cavalli.

Il Pensionario, come struttura, si trova all’interno di una Riserva naturale dello Stato, la riserva di Palazzo, perché noi come Reparto gestiamo Riserve dello Stato. Abbiamo 5 Riserve, fra cui questa di Siena che è la più piccola.

Il Pensionario è formato da tanti pascoli recintati e box con paddock; si parla di 250 ettari, la metà circa è costituita da boschi, 20/30 sono riservati ai prati coltivati per il foraggio destinato ai cavalli, il resto sono paddock (28 sono i cavalli presenti, tra questi 6 del Palio)(dati 2020 ndr).  Quando il cavallo arriva per la prima volta, in molti casi, è passato prima dalla clinica veterinaria del Ceppo, lo teniamo in box per un breve tempo; successivamente lo abituiamo gradualmente  a stare al pascolo. La vita migliore per loro è all’aperto, infatti, passato il periodo iniziale vivranno sempre all’aria aperta, salvo l’insorgere di problemi particolari, in questi ampi recinti dotati di abbeveratoi e tettoie, dove potranno pascolare tutto l’anno. Vengono comunque alimentati ogni giorno con mangime e fieno. Siamo dotati inoltre di un maniscalco di servizio e di un veterinario convenzionato.”

 

Ancora oggi gestite l’allevamento dei cavalli grazie all’incremento delle fattrici?

“Noi non gestiamo più l’allevamento per quel tipo di cavallo. Prima facevamo allevamento anche della razza anglo-araba e poi addestramento. Non lo facciamo più perché negli anni abbiamo ridotto e reindirizzato le attività allevatoriali.

Questo Reparto ha quasi un secolo di storia e, in passato, cioè negli anni, sostanzialmente, Cinquanta, Sessanta e inizio Settanta, quelle che poi sono diventate riserve naturali erano aziende pilota, quindi l’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali, gestiva questi terreni con l’intento di creare delle attività economiche nelle aree montane e collinari marginali, e la maggior parte delle attività che sviluppava erano di tipo allevatoriale, soprattutto bovini e suini, al margine equini. Successivamente molte cose sono cambiate e adesso alleviamo soltanto razze in via di estinzione come il cavallino di Monterufoli e l’asino amiatino.”



Oltre alle attività allevatoriali, poi cessate, avete mai pensato di reinserire cavalli, che in passato avevano ben recuperato da un infortunio, laddove ci fossero stati presupposti, in attività diverse come passeggiate o competizioni?

Questo no, non si è mai fatto. Quando escono dal Ceppo, vengono da noi solo se possono vivere autonomamente la loro vita, devono essere in grado di potersi muovere liberamente e talvolta riacquistano andature che sembrano normali, ma non sono mai stati montati e utilizzati.

 

Qual è il futuro e quali sono le prospettive della struttura?

“Il futuro della struttura, lo vedo positivo, così come è stato positivo il passaggio dal Corpo Forestale all’Arma dei Carabinieri. Per cui stiamo andando avanti con tutte le attività tradizionali, il settore biodiversità è divenuto una specialità dell’Arma dei Carabinieri.”

 

Ci sono anche altre attività come la vostra nel mondo paliesco al di là di Siena?

“Come Corpo Forestale prima ed Arma dei Carabinieri adesso, non ci sono altri esempi come il nostro, questa nostra è una realtà unica. “

 

I contradaioli, le Contrade, gli affezionati, vengono a visitare questi cavalli?

Si, negli anni sono venuti molti gruppi da Siena,  anche di giovani contradaioli, soprattutto nel periodo estivo.”



Altoprato (nato nel 1996; 9 Palii corsi, esordio: 9 settembre 2000, ultimo Palio: 16 agosto 2004. Dal 2004 risiede al pensionario). Deceduto nel 2021

 

Dopo questa piacevole chiacchierata condotta nell’ufficio, il Tenente Colonello Carlo Severi ci invita a far visita ai soggetti ospiti di cui fino ad ora avevamo solo parlato. Per prima salutiamo Zullina, ospite nella piccola riserva presente al Comando Centrale a Siena. La troviamo mentre pascola placidamente nel suo paddock in compagnia di una giovane cavalla di razza monterufolina, entrambe al riparo dalla calura del sole estivo che cominciava a farsi sentire. Noi contentissimi cerchiamo di attirarla, ma senza troppi risultati: le nostre mani vuote e i nostri richiami erano meno invitanti dell’ombra e dell’erba da brucare.

Ci spostiamo poi verso il distaccamento del pensionario situato nel Comune di Radicondoli. A soli 45 minuti da Siena e situato in un ambiente boschivo al confine tra le province di Siena, Grosseto e Pisa. Anche se le informazioni forniteci poco prima dal Comandante erano state molto esaustive non ci avevano preparato a quello spettacolo. Tra le colline verdi smeraldo si sono aperti davanti ai nostri occhi 3 paddock dal terreno morbido e liscio che, come ci spiegava il Comandante poco prima, è pensato appositamente per agevolare l’andatura dei cavalli. La vera sorpresa però sono stati proprio i barberi: vederli venire verso di noi con passo sicuro e spedito, chi ancora coi muscoli scolpiti, chi un po’ più fragile e con qualche pelo bianco sul mantello. Il personale del centro ci ha fatto entrare nel paddock per darci l’opportunità di vederli un po’ più da vicino. Siamo stati per oltre mezz’ora ad accarezzarli, cullarli con parole dolci e adorazione fanciullesca. D’un tratto siamo tornati i bambini che con gli occhi pieni di ammirazione vedono arrivare in contrada il barbero anticipato dal rumore dei suoi zoccoli ferrati sulla pietra serena. Ma l’aspetto più sorprendente, se possibile, è stato un altro.

I cavalli si sa hanno una intelligenza emotiva particolare che li fa distinguere le minacce dalle situazioni innocue. Dopo averci guardato negli occhi e compreso le genuinità delle nostre emozioni sincere si sono concessi a noi in coccole, talvolta venendole avidamente a cercarle quando interagivamo tra noi umani. Li abbiamo lasciati a malincuore e loro ci hanno seguito con le loro testone incuriosite e con un ultimo sguardo sembravano dirci “Tornate a farci le coccole, vero?!?”.

Di questa esperienza sicuramente ci rimarrà il piacere e il privilegio di aver ritrovato questi ex guerrieri a quattro zampe e di averli nuovamente ringraziati. A tutto questo, che poco non è, va aggiunto un plauso ai Carabinieri Forestali e tutto il personale che si occupa del Pensionario. Il rispetto per l’animale “cavallo”, la sua natura di stare in branco e libero di muoversi all’aperto sono i principi cardine che muovono le loro attività. A questo va aggiunta la cortesia squisita con cui ci hanno accolto e risposto a tutte le domande che, come giornalisti ma soprattutto come contradaioli, eravamo ansiosi di porre. Ci hanno riservato la stessa gentilezza e premura che dedicano agli animali.….E credeteci, qui agli animali gli vogliono bene davvero !!


Eleonora Sozzi, Caterina Manganelli, Lorenzo Gonnelli

domenica 28 luglio 2024

Tamburo... che passione!


Siena è veramente una città magica, mutevole di architettura e atmosfera da rione in rione, che spesso basta girare un angolo, uscire da una viuzza che ti sembra di essere stato trasportato in un altro luogo, tanto da farti girare e ricercare incredulo, da dove sei venuto.

Questa magia non fa certo sconti neanche per l'alternarsi delle stagioni, quando, dopo il letargo invernale, Siena rinasce e sboccia come un fiore con la primavera, e proprio come i fiori che ogni tanto nelle pazze stagioni di questo secolo te li trovi che fanno capolino in inverno quasi a rassicurarti che quel periodo freddo e di luce incerta finirà presto, camminando per i rioni può capitare di sentire da dietro la porta di qualche economato, un rullio di tamburo.

Quel suono basso e greve di pelle e cordiera in budellino, è come un raggio di sole, una bevanda calda che lenisce dal torpore sia il corpo che l'anima, è come una voce sommessa che dice: tranquillo, anche quest'anno tornerò a far sentire la mia voce insieme a quella di tutti i miei fratelli nella stagione del sole.

A quel punto ti fermi, tendi l'orecchio e speri che quel suono continui, non smetta, speri che chi lo suona non si preoccupi troppo dei vicini che potrebbero lamentarsi ma vada avanti, come quando la notte ti porta un sogno bellissimo da cui non vorresti mai destarti.

La storia che mi lega con questo aulico strumento inizia fin da piccolo, ma sinceramente fuori luogo per essere narrata qui, dirò solo che grazie a un carissimo amico di nome Duccio, che mi prestò il suo balilla per allenarmi un anno intero, ho avuto il privilegio di indossare la montura da tamburino per molti anni (fieramente passista ma con la licenza sovente del “raddoppio”) e grazie alla mia non più giovanissima età, (sia ben inteso solo per l'anagrafe) di indossarla oltre che per il giro in città, anche per quello in campagna, del quale provo particolare nostalgia.

Tamburo che passione, e la passione è veramente tantissima se ripenso a quelle domeniche di fine maggio o di inizio mangia e bevi quando in luglio, sotto un sole cocente, suonavamo i nostri mitici balilla per le strade extramoenia facendo spesso sbandierate alle persiane chiuse di contradaioli in vacanza; e ancora che passione sempre quando sperduto in qualche via dell' Acquacalda o di san Miniato, chi ti accompagnava, sentendoti magari smettere un minuto per riprendere fiato o perché ti sentivi tremendamente fuori luogo ti squadrava e ti diceva: “oh! Sona!!!” e te li riprendevi “bereben ben be-ben ben bereben ben berebenbenben...

Quanto mi manca!!

Non me ne vogliano gli alfieri, di cui ammiro la grazia, lo stile la nobiltà del gesto e le eleganze dello svolazzio frusciante della seta, se dico che per quanto so essere bello far volare la propria bandiera alta nel sole e nel cielo di Piazza del Campo, solo noi tamburini sappiamo cosa sia, quando per il rientro, imbocchiamo il Chiasso largo e in una frenesia di raddoppi e rullate senti il capo tamburo che urla “PASSO!!!” e a quel punto una voce unica, potente, invincibile e fiera, si leva dai nostri tamburi come fosse uno solo e annuncia solenne a tutti l'ingresso della Torre in Piazza del Campo.

E non ce n'è per nessuno!


Francesco Pizzo Giannini

Foto Jacopo Bartolini e Lorenzo Monciatti

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 25 Luglio 2020 dedicato alla Contrada della Torre



sabato 6 luglio 2024

"Bentornata, vecchia Amica!"


La sensazione, è stata la stessa che si prova nel rivedere un amico di vecchia data. Il protagonista della nostra infanzia, il compagno di banco, quello che non era un fratello solo per il sangue diverso. È stato come rivedersi dopo tanti anni e capire che non era cambiato niente. Per i Brucaioli, l’incontro con la fantomatica bandiera del ‘700  arrivata direttamente dal Metropolitan Museum di New York, è stato questo: riabbracciare una vecchia amica, che non si vedeva da tempo. In realtà, non l’avevamo mai vista! Sapevamo solo che portava i nostri colori, che sicuramente era nata in qualche angolo delle nostre strade e che, per qualche motivo, era finita nella collezione di tale duca Dino Charles Maurice Camille de Talleryrand-Périgord. Non sappiamo come ci sia arrivata, ma uno con un nome così, sicuramente sarà stato un buongustaio in fatto di pezzi unici. Unici, sì. Perché oggi, quando vediamo sfilare le bandiere delle consorelle sulle lastre del centro storico, ci sembrano tutte uguali. Con quei colori mossi dal vento, confusi dal rullo di un tamburo… Eppure, ogni bandiera ha la sua storia: le mani che l’hanno sfiorata, le dita sapienti che l’anno cucita e l’animo nobile di chi si è finita gli occhi per rammendarla. Questa, la bandiera del Bruco arrivata dall’America, ha una storia più… movimentata delle altre. Chissà quante cose avrebbe da raccontare…


Ovvìa, allora siete duri! Ma lo volete capi’ che la luce mi dà noia? Mi fate smunge tutti i colori, alla fine mi stingo e ‘un mi si riconosce più! Già m’hanno chiamato in tutte le maniere, alla fine si so’ dimenticati anche chi ero e da dove venivo. Io ve lo dico, ci so’ dei gazzillori a giro… roba da chiodi!

Ora mi dovete spiega’ come si fa a dimenti’assi del mi’ Bruchino. Ohiohi, cambiamo discorso via, mi ci vengano i lucci’oni. So’ passati trecent’anni e ancora mi sembra di senti’ l’vento canta’ in via del Comune, co’l profumo delle lastre impolverite e il chiacchiericcio, alla sera, prima di dormi’. Madonna ‘ome ci si stava bene, lì nel mi’ Bruchino.

Via, via! ‘Un ci voglio più pensa’, mi ci viene da piange’! C’ho quasi sperato eh, quando questi american boys mi so’ venuti a prende. Cheddì in quel troiaio di roba che teneva l’Duca in cantina! Ma ve’rai, uno che si chiama a quella maniera… Ori, gioielli, armature… Mi’a l’aveva capito che ero io, la bandiera del Bruco, quella più preziosa di tutte.

Nemmeno questi del museo c’avevano ‘apito parecchio, eh! Tutti a di’ “aaah, gudde, gudde, biutiful” e poi m’hanno zeppato nelle retrovie. Io ve lo ripeto: il mondo è pieno di gazzillori!

Ora, per esempio, dopo avemmi rotto le scatole e tirata fòri dal mi’ pertugio, m’hanno stiacciata dentro a un vetro e sgaribaldata su un aereo. Oh disgraziati! Io c’ho una certa eh!

Madonnina santa e benedetta, o dove mi porteranno? E se hanno deciso di buttammi via? Ora, vorrebbe di’ che gli è dato di balta l’capo eh… Però ecco, inizio ad ave’ qualche annetto. M’hanno sempre tenuta nascosta: tenuta bene, eh, per carità. Ma forse, lontano dalla mi’ Siena e dal mi’ Bruchino, io so’ solo una bandiera come quell’altre. Forse, passate quelle mura, è difficile capire l’amore che esiste tra le mi’ cuciture, l’emozione che il mi’ fruscìo fa nascere nel cuore di quelli di ‘asa mia…

In fondo, la fine arriva per tutti. Anche per una bandiera preziosa, fatta d’amore e di passione, anche per chi ha girato l’mondo come me, ma ‘un s’è mai dimenti’ata di casa sua.

M’hanno sballonzolato da tutte le parti, ‘un so’ stata bona a capicci niente! Poi m’hanno messo l’muso sotto un panno e arrivederci.

Ohiohi… o che succede? Che è ‘sto casino? Mi sembra d’avello bell’e sentito ma ‘un capisco, tutte queste voci, queste risate…

E l’mondo si fa luminoso. ‘Un c’ero mai stata, so’ cambiate un monte di ‘ose. Loro ‘un l’hanno visto, ma mi so’ messa a lacrima’ come uno scampolo appena nato. Il mi’ Bruchino, m’hanno ritrovata!

Oh Bruchino, Bruchino mio, quanto ho patito lontana da qui!

Grazie. Perché ‘un vi siete dimenticati di me, di noi, dell’importanza dei nostri colori, della vita che scorre e che traccia la storia. Grazie, perché siete il Bruco. Nobil Contrada, nell’anima e nel cuore.

Finalmente, sono a casa.

La Bandiera


Arianna Falchi

per la foto della bandiera si ringrazia Lucia Pelosi

Articolo tratto dal Notiziario del Forumme del 4 Luglio 2020 dedicato alla Nobil Contrada del Bruco


Ettore, un Panterino che conquistò il mondo

  Una Porsche rossa che saliva le curve di San Marco, per arrivare in modo impaziente nel suo Pian dei Mantellini, dove ad attenderlo c’eran...